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Ep. 03 | Pierre de Coubertin | Ode allo sport Lo stadio universale

    • Sport

C’è un altro elemento che rende memorabili le Olimpiadi di Stoccolma 1912. Per la prima volta, vennero disputati concorsi olimpici anche per categorie artistiche: architettura, pittura, scultura, musica, letteratura. Una tradizione che si affermò per circa quarant’anni, fino alle Olimpiadi di Londra del 1948. Le opere in competizione raramente hanno superato il giudizio della critica nei decenni successivi; attraverso di esse, però, possediamo testimonianze straordinarie sulla relazione tra arti e sport nella prima metà del Novecento.

Ne è un esempio la medaglia d’oro per la migliore opera letteraria assegnata ai Giochi di Stoccolma. Una Ode allo sport, ufficialmente composta da due poeti ignoti alle cronache letterarie, il francese Georges Hohrod e il tedesco Martin Eschbach. Il premio assegnato a quest’opera era perfettamente in linea con lo spirito olimpico: due esponenti di paesi nemici sul versante geopolitico componevano insieme un inno che celebrava, attraverso lo sport, giustizia, progresso e pace tra le nazioni. A distanza di tempo, tuttavia, si verrà a sapere che i nomi di Hohrod e Eschbach altro non erano che uno pseudonimo. Dietro di essi si nascondeva lo stesso fondatore dei Giochi, il barone de Coubertin, che poté così anch’egli portare a casa una medaglia olimpica.

Nella primavera del 1912 De Coubertin inviò al Comitato organizzatore delle Olimpiadi, in Svezia, l’elenco delle opere vincitrici di ognuna delle sezioni. E sappiamo che alcuni vincitori avevano una conoscenza personale con De Coubertin: i due architetti svizzeri vincitori nella loro categoria, ad esempio, erano stati recensiti positivamente dal barone già nel 1911. Anche lo scultore Georges Dubois, che vinse la medaglia d’argento, aveva partecipato a un incontro sportivo-letterario (era infatti anche uno schermidore) alla presenza di De Coubertin nel 1906. Il connubio tra sport e arte era certamente ben visto da De Coubertin, ed è forse questa la ragione per cui, nella stessa categoria della scultura, fu premiato l’americano Walter Winans. Che a Stoccolma, in quelle Olimpiadi, si recò anche per partecipare a un’altra competizione olimpica, che oggi per fortuna sarebbe impensabile: quella del “tiro al cervo”.

Le medaglie dei concorsi artistici vennero inviate ai vincitori per posta. Non ci fu dunque nessuna cerimonia di premiazione, nessun podio, nessun inno. De Coubertin chiese tuttavia al comitato olimpico organizzatore di allestire una mostra per le opere di pittura e scultura partecipanti. Gli svedesi, malgrado la loro riluttanza ad accettare quei concorsi artistici come discipline olimpiche, accettarono: il medaglione dello scultore canadese Tait McKenzie, raffigurante tre atleti nudi che saltano un ostacolo, piacque a tal punto che fu collocato su un muro dello Stadio Olimpico di Stoccolma, e lì si trova ancora oggi.

Non ha avuto la stessa fortuna l’Ode allo Sport di Georges Horhod e Martin Eschbach, alias Pierre De Coubertin. Composta originariamente in tre lingue, tedesco, francese e inglese, questa composizione viene oggi menzionata solo in testi sulla storia dei giochi olimpici moderni. Del resto, si tratta di versi altisonanti e con un’abbondante dose di solennità che li rende ben lontani dal gusto poetico contemporaneo.

C’è un altro elemento che rende memorabili le Olimpiadi di Stoccolma 1912. Per la prima volta, vennero disputati concorsi olimpici anche per categorie artistiche: architettura, pittura, scultura, musica, letteratura. Una tradizione che si affermò per circa quarant’anni, fino alle Olimpiadi di Londra del 1948. Le opere in competizione raramente hanno superato il giudizio della critica nei decenni successivi; attraverso di esse, però, possediamo testimonianze straordinarie sulla relazione tra arti e sport nella prima metà del Novecento.

Ne è un esempio la medaglia d’oro per la migliore opera letteraria assegnata ai Giochi di Stoccolma. Una Ode allo sport, ufficialmente composta da due poeti ignoti alle cronache letterarie, il francese Georges Hohrod e il tedesco Martin Eschbach. Il premio assegnato a quest’opera era perfettamente in linea con lo spirito olimpico: due esponenti di paesi nemici sul versante geopolitico componevano insieme un inno che celebrava, attraverso lo sport, giustizia, progresso e pace tra le nazioni. A distanza di tempo, tuttavia, si verrà a sapere che i nomi di Hohrod e Eschbach altro non erano che uno pseudonimo. Dietro di essi si nascondeva lo stesso fondatore dei Giochi, il barone de Coubertin, che poté così anch’egli portare a casa una medaglia olimpica.

Nella primavera del 1912 De Coubertin inviò al Comitato organizzatore delle Olimpiadi, in Svezia, l’elenco delle opere vincitrici di ognuna delle sezioni. E sappiamo che alcuni vincitori avevano una conoscenza personale con De Coubertin: i due architetti svizzeri vincitori nella loro categoria, ad esempio, erano stati recensiti positivamente dal barone già nel 1911. Anche lo scultore Georges Dubois, che vinse la medaglia d’argento, aveva partecipato a un incontro sportivo-letterario (era infatti anche uno schermidore) alla presenza di De Coubertin nel 1906. Il connubio tra sport e arte era certamente ben visto da De Coubertin, ed è forse questa la ragione per cui, nella stessa categoria della scultura, fu premiato l’americano Walter Winans. Che a Stoccolma, in quelle Olimpiadi, si recò anche per partecipare a un’altra competizione olimpica, che oggi per fortuna sarebbe impensabile: quella del “tiro al cervo”.

Le medaglie dei concorsi artistici vennero inviate ai vincitori per posta. Non ci fu dunque nessuna cerimonia di premiazione, nessun podio, nessun inno. De Coubertin chiese tuttavia al comitato olimpico organizzatore di allestire una mostra per le opere di pittura e scultura partecipanti. Gli svedesi, malgrado la loro riluttanza ad accettare quei concorsi artistici come discipline olimpiche, accettarono: il medaglione dello scultore canadese Tait McKenzie, raffigurante tre atleti nudi che saltano un ostacolo, piacque a tal punto che fu collocato su un muro dello Stadio Olimpico di Stoccolma, e lì si trova ancora oggi.

Non ha avuto la stessa fortuna l’Ode allo Sport di Georges Horhod e Martin Eschbach, alias Pierre De Coubertin. Composta originariamente in tre lingue, tedesco, francese e inglese, questa composizione viene oggi menzionata solo in testi sulla storia dei giochi olimpici moderni. Del resto, si tratta di versi altisonanti e con un’abbondante dose di solennità che li rende ben lontani dal gusto poetico contemporaneo.

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