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    Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e i suoi mosaici. Seconda parte

    Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e i suoi mosaici. Seconda parte

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    La Chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna venne costruita su iniziativa del re ostrogoto Teodorico nel 505 come basilica di culto ariano. Inizialmente, infatti, era stata dedicata a Domini Nostri Jesu Christi. Fu la chiesa palatina di Teodorico: il re e la sua corte vi assistevano alle celebrazioni eucaristiche. Quando la città venne conquistata da Giustiniano nel 540, la chiesa passò in proprietà alla Chiesa cattolica, come tutti i beni immobili già posseduti dagli ariani.















    Fu riconsacrata a San Martino di Tours, difensore della fede cattolica e avversario di ogni eresia, e dedicata al culto cattolico. In quella occasione, furono distrutti alcuni dei suoi mosaici paleocristiani e sostituiti con nuovi cicli musivi, che quindi sono di età bizantina.







    Le Vergini e i Martiri







    Durante seconda metà del VI secolo, furono quasi interamente rifatti i due registri inferiori della decorazione musiva del cleristorio, gli stessi che contengono il Palazzo di Teodorico e il Porto di Classe (sopravvissuti alla distruzione). Presentano due lunghe Processioni di Vergini e di Martiri, che idealmente accompagnano il fedele dall’ingresso dell’edificio fino alla zona absidale.







    Parete sinistra del cleristorio di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Decorazione musiva, VI secolo. Registro superiore con Storie di Cristo (500-525 ca.), registro mediano con Santi e Profeti (500-525 ca.), registro inferiore con (da sinistra) il Porto di Classe (500-525 ca.), la Processione delle Vergini (568 ca.), i re Magi e la Madonna con il Bambino in trono (561-68 ca.).







    Parete sinistra del cleristorio di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Decorazione musiva, VI secolo. Registro superiore con Storie di Cristo (500-525 ca.), registro mediano con Santi e Profeti (500-525 ca.), registro inferiore con (da destra) il Palazzo di Teodorico (500-525 ca.), la Processione dei Martiri (568 ca.), Cristo in trono (561-68 ca.).







    Vergini e Martiri non sembrano neppure muoversi: giusto la leggera inclinazione dei corpi o il lieve fluttuare dei mantelli testimoniano del loro camminare. Gli uomini, identificati dal loro nome scritto in alto, calzano sandali sui piedi nudi; le donne, anch’esse sovrastate dai propri nomi, indossano eleganti scarpette rosse.















    I personaggi maschili presentano, negli orli delle vesti, dei segni liturgici simili a lettere greche, chiamati gammadiae (dalla lettera greca Gamma), occasionalmente presenti nell’arte paleocristiana e bizantina. Le gammadiae potrebbero avere significati simbolici, forse relativi alle qualità di Cristo. Tali significati, un tempo noti, sono stati dimenticati nei secoli successivi. Oggi, nonostante vari tentativi di interpretazione, restano ancora misteriosi.







    Processione di Martiri, 561-68 ca. Particolare. Mosaico. Ravenna, navata maggiore della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.







    Vergini e Martiri offrono a Gesù e a Maria la propria corona, in genere tenendola attraverso il mantello (non si usava, a quei tempi, toccare gli oggetti sacri con le mani nude). Le piante che si trovano tra una figura e l’altra hanno una funzion...

    • 6 min
    San Carlo alle Quattro Fontane di Borromini

    San Carlo alle Quattro Fontane di Borromini

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    La Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane fu il primo importante incarico della carriera del grande architetto barocco Francesco Borromini (1599-1667). L’edificio, dedicato a san Carlo Borromeo, gli venne commissionato dall’Ordine spagnolo dei Trinitari Scalzi, insieme all’annesso convento. Nel 1638 fu posta la prima pietra della chiesa, compiuta, ad esclusione della facciata, nel 1641.















    La chiesa venne scherzosamente rinominata dai romani San Carlino, a causa delle sue minuscole dimensioni. Si pensi che la sua area equivale allo spazio occupato da uno solo dei piloni che sostengono la cupola di San Pietro.







    Francesco Borromini, San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-67, Roma.







    Il chiostro







    Disegnando il piccolo chiostro rettangolare del convento, Borromini creò una nuova tipologia formale. Infatti, distribuì gli intervalli delle colonne con un ritmo alterno (più larghi e più stretti), eliminò gli angoli e li trasformò in corpi convessi. In tal modo, la pianta si trasforma in un ottagono irregolare.















    L’alzato presenta un doppio ordine di colonne; quelle inferiori sono tuscaniche e presentano un capitello il cui abaco si prolunga in modo da costituire una sorta di architrave continuo e mistilineo, ossia retto nelle porzioni di muro e curvo in corrispondenza degli archi.







    Francesco Borromini, Chiostro rettangolare del Convento di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-38, veduta. Roma.







    Francesco Borromini, Chiostro del Convento di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-38, particolare. Roma.







    Francesco Borromini, Chiostro del Convento di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-38, particolare. Roma.







    Il metodo borrominiano







    Già nel piccolo intervento del chiostro, Borromini affrontò un tema che si sarebbe rivelato fondamentale nello sviluppo successivo della sua arte: quello della continuità ottica e spaziale dell’architettura. Le opere borrominiane non presentano mai un incontro fra due superfici piatte; vi si coglie sempre la volontà di addolcire gli spigoli, di ridurre gli aggetti, di stabilire un rapporto tra verticali e orizzontali con mediazioni che scongiurino qualsiasi forma di discontinuità.







    Francesco Borromini, San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-67, Roma. Pianta della chiesa e del chiostro.







    La pianta della chiesa







    Borromini si rivelò un vero maestro di razionalità distributiva. Il suo metodo, estraneo alla tradizione classica della progettazione modulare, era infatti basato sull’uso di unità geometriche. Nella chiesa, per esempio, lo schema di base della pianta è costituito da un rombo, formato da due triangoli equilateri che hanno un lato in comune, cui si sovrappone il perimetro mistilineo dell’edificio.

    • 7 min
    Klimt, Freud, D’Annunzio e l’erotismo

    Klimt, Freud, D’Annunzio e l’erotismo

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    Gustav Klimt (1862-1918) fu il più importante pittore tra quelli attivi a cavallo fra XIX e XX secolo, oltre che il maggiore esponente pittorico del Simbolismo austriaco. Fondatore della Secessione viennese, che guidò fino al 1904, divenne l’artista più rappresentativo dell’intero movimento. Klimt sviluppò uno stile moderno, caratterizzato da bidimensionalità accentuata e tratti curvilinei, eleganti e sinuosi.















    Costruì le proprie immagini combinando astrazione e naturalismo, elementi ornamentali e dettagli illusionistici, riuscendo sempre a mantenere un armonico equilibrio tra soggetto e decorazione. Le scene sono spesso esaltate dall’uso dell’oro, i cui effetti di forte astrazione simbolica negano ogni illusione di profondità e richiamano i preziosismi bizantini.







    Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer I (Woman in Gold), 1907. Olio, argento e oro su tela, 1,38 x 1,38 m. New York, Neue Galerie.







    Pittore di donne







    Klimt fu un instancabile pittore di donne, che amò smodatamente anche nella vita. Si dice che nel suo atelier si circondasse di modelle nude anche quando non dipingeva. Delle donne, che fossero vestite con ampi abiti, eleganti cappelli e preziosi colli di pelliccia oppure completamente svestite, Klimt esaltò sempre la seducente femminilità.















    Fu soprattutto nei suoi 3000 disegni che il pittore indagò i temi dell’eros, del piacere e della voluttà con spirito quasi voyeurstico. L’arte, secondo l’artista, doveva contribuire a scardinare i tabù. Per questo egli impregnò le proprie scene di un erotismo più o meno marcato, con esiti che all’epoca non esitarono a definire osceni. Ma Klimt rispose sempre alle critiche con atteggiamento irriverente, per esempio realizzando una caricatura di sé stesso con i genitali esposti.







    Gustav Klimt in un ritratto fotografico.







    In effetti, laddove alcune sue immagini di donne mostrate nude, con il sesso bene in evidenza, in posizioni inequivocabili, facilmente erano percepite e identificate come pornografiche (troppo simili alle fotografie erotiche dell’epoca), anche le sue figure più controllate e morigerate risultavano irresistibilmente seduttive. D’altro canto, almeno per la nostra sensibilità contemporanea, l’erotismo esplicito di Klimt non è mai osceno e pornografico, seppure spinto. Anche le pose più audaci delle sue modelle risultano intime e naturali.







    Gustav Klimt, Giuditta, 1901. Olio su tela, 84 x 42 cm. Vienna, Österreichische Galerie.







    Pesci d’oro







    L’opera intitolata Pesci d’oro raffigura delle seduttive sirene che nuotano tra le onde impreziosite d’oro. Due sono viste di schiena e una, quella in primo piano, maliziosamente si volta e guarda lo spettatore, sorridente e ammiccante. Tra loro si insinua un grosso pesce dorato. Il formato alto e stretto della tela le obbliga a stringersi fra loro, in un intimo contatto.















    L’atteggiamento di queste figure femminili completamente nude è senza dubbio provocatorio e sensuale; le bocche socchiuse, gli sguardi languidi e i lunghi capelli ondeggianti risultano espliciti richiami sessuali. Il dipinto, esposto alla tredicesima mostra della Secessione viennese, fu giudicato osceno da pubblico e critica.







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    • 7 min
    Malinconia di Munch e l’opera di Svevo

    Malinconia di Munch e l’opera di Svevo

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    «Che cos’è l’arte? L’arte emerge dalla gioia e dal dolore. Maggiormente dal dolore. Fiorisce dal vivere umano». Così scrisse, nei propri diari, il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944), esponente di spicco del Simbolismo europeo, riferimento essenziale della Secessione di Berlino e precursore dell’Espressionismo tedesco. «Io credo unicamente in un’arte che sia dettata dal bisogno umano di aprire il proprio cuore.















    Un’opera d’arte sgorga direttamente dal più intimo essere dell’uomo». E cosa albergava nel cuore di questo artista? Paura, dolore, ansia esistenziale, un mal di vivere acuto e quasi paralizzante che tuttavia Munch riuscì a riversare nelle proprie opere, quasi con intento terapeutico, assecondando una febbrile esigenza di espressione.







    Edvard Munch in un ritratto fotografico.







    L’arte come confessione







    «Per me, dipingere è come essere ammalato o intossicato – una malattia dalla quale non vorrei mi si guarisse, un’intossicazione di cui non posso fare a meno». Per Munch, l’arte fu terapia e occasione di confessione pubblica. L’artista espresse con i suoi quadri il proprio sentimento tragico della vita. Nelle sue opere dai colori densi e spettrali, cariche di pessimismo e di erotismo, profondamente misogine, affrontò simbolicamente i temi della solitudine, della gelosia, della morte, del dolore, della difficoltà di vivere, della misantropia.







    «La mia arte è un’autoconfessione. Per suo tramite io tento di far luce sul mio rapporto con il mondo. Si potrebbe anche considerare egoismo. Comunque sia, ho sempre pensato e sentito che la mia arte potrebbe aiutare gli altri a fare luce nella loro ricerca di verità». Un’arte «in grado di emozionare e commuovere. Un’arte che nasca dal sangue del cuore».







    Edvard Munch, Malinconia, 1891. Pastello, colori a olio e matita su tela, 73 x 101 cm. Oslo, Munch Museum.







    Malinconia







    Tutti i dipinti di Munch prodotti a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento e ancora quelli novecenteschi (realizzati nella drammatica solitudine del suo ritiro norvegese) testimoniano l’angosciosa condizione di non-vita a cui l’artista sentiva di appartenere: una condizione nella quale egli si percepiva estraneo perfino a sé stesso, non sapendo realmente chi fosse e cosa volesse. Questo suo dolente stato d’animo è ben rappresentato in una serie di opere (5 tele e 2 xilografie) realizzate tra il 1891 e il 1902, intitolate Malinconia.















    Sono tra i primi quadri esplicitamente simbolisti del pittore ed entrarono a far parte del suo Fregio della vita. Il soggetto è quello di un uomo solitario, triste e pensieroso, mostrato in primissimo piano seduto su una spiaggia, ripiegato su sé stesso, con il capo sorretto da una mano. In alcune delle opere, sullo sfondo, si intravede una coppia in procinto di imbarcarsi. La prima versione del dipinto, risalente al 1891, combina diverse tecniche pittoriche. Alcune parti della di tela non sono state dipinte. Le forme semplificate, la mancanza di prospettiva, l’accentuata bidimensionalità rimandano al sintetismo simbolista.







    Edvard Munch, Malinconia, 1892. Olio su tela, 64 x 96 cm. Oslo, Nasjonalmuseet.

    • 8 min
    Il Movimento Moderno e l’insegnamento al Bauhaus

    Il Movimento Moderno e l’insegnamento al Bauhaus

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    Alla fine della Prima guerra mondiale, le strutture urbane tradizionali cominciarono ad apparire anacronistiche. La ricostruzione del primo dopoguerra e la ripresa delle attività imposero un’accentuazione della funzionalità delle città e una loro ristrutturazione generale, nonché la meccanizzazione dei servizi e dei trasporti.















    Le città, insomma, dovettero essere “ripensate” in senso funzionale, sociale e igienico. Si trasformò radicalmente la figura professionale dell’architetto, al quale si richiese di essere un urbanista prima ancora che un costruttore.







    Se, dunque, il banco di prova per i precursori dell’architettura moderna era stato, all’inizio del secolo, la progettazione di abitazioni unifamiliari per la grande borghesia illuminata, dopo la guerra, sempre di più, gli architetti dovettero porsi il problema di costruire case a basso costo, moduli abitativi facilmente disponibili su una stessa linea (case a schiera) o ripetibili in gruppi, sino a formare interi quartieri.















    Ancora una volta fu la borghesia a comprendere e ad accettare la sperimentazione formale dell’architettura moderna, tesa a inventare un diverso modello di bellezza.







    Un ritratto fotografico di Walter Gropius negli anni Trenta.







    Il Movimento Moderno







    Una nuova tendenza progettuale, capace di caratterizzare in tutta l’Europa la prima metà del XX secolo, prese il nome di Movimento Moderno. Tra i protagonisti di questo nuovo indirizzo architettonico ci furono architetti di altissimo calibro, come Walter Gropius, Ludwig Mies van der Rohe e Le Corbusier, che si ribellarono al classicismo accademico e propugnarono il più drastico rifiuto dell’eclettismo stilistico e dell’ornamento.







    Questi maestri asserirono che gli edifici moderni dovevano essere prima di tutto funzionali e che nuove forme architettoniche, elementari e puriste, potevano essere elaborate soprattutto attraverso l’uso di materiali come il cemento armato, il ferro e il vetro. Essi proposero, altresì, di controllare la necessaria espansione urbana attraverso un’ordinata zonizzazione delle funzioni. Nell’architettura del Movimento Moderno prevalse la tendenza ad adottare forme geometriche rigorose nella progettazione di edifici.















    La forma geometrica, tuttavia, non fu scelta come forma in sé, in nome di un presunto canone di bellezza moderno per l’architettura, ma come forma standardizzata, dunque universale e ripetibile, cui attribuire significati diversi secondo le diverse circostanze e necessità.







    Il Movimento Moderno è anche noto come Funzionalismo o, per la fiducia riposta dai suoi esponenti nel potere della ragione, come Razionalismo, sebbene con quest’ultimo termine si tenda normalmente a identificare soprattutto l’attività degli architetti moderni italiani.







    Gli insegnanti della scuola del Bauhaus in una foto d’epoca.







    Le teorie di Gropius







    Walter Gropius (1883-1969), architetto, designer e urbanista tedesco, è considerato fra i principali protagonisti del Movimento Moderno. Secondo le sue teorie architettoniche, lo spazio di un edificio deve essere concepito in modo del tutto nuovo; le ampie pareti vetrate non individuano rigidamente spazi “interni” ed “esterni” ma consentono allo spazio di essere caratterizzato prevalentement...

    • 10 min
    Otto Dix e la Nuova Oggettività in Germania

    Otto Dix e la Nuova Oggettività in Germania

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    Tra il 1919 e il 1935 si sviluppò in Germania il movimento artistico noto come Neue Sachlichkeit, ossia ‘Nuova oggettività’, il cui nome fu coniato in occasione di una mostra tenutasi nel 1925 a Mannheim. Il termine “oggettività” non va inteso nel solco del Realismo ottocentesco, giacché i pittori del gruppo fecero ricorso alla caricatura, alla deformazione e alla metafora, ritraendo i propri soggetti non come apparivano agli occhi ma com’erano moralmente: dunque “oggettivamente” brutti e grotteschi.















    La forma del dissenso e dell’esplicita opposizione all’arte monumentale e tradizionale si articolò tra l’inquieto presagio di un’apocalisse prossima ventura e la denuncia della violenza delle classi dominanti; fra i temi prediletti vi fu, soprattutto, quello della città, intesa come un luogo di perdita dell’identità collettiva e come lo scenario di un carnevale grottesco.







    Otto Dix, Autoritratto con garofano, 1912. Olio su carta montato su tavola, 73,7 x 49,5 cm. Detroit, Detroit Institute of Arts.







    Una violenta carica satirica







    Per via di queste rilevanti assonanze, il movimento si legava indubbiamente alla recente esperienza espressionista, con la quale condivideva l’uso di una linea contorta e tormentata, l’adozione di un cromatismo acceso e violento, la scelta di composizioni drammatiche e sgradevoli. Ricorda un’attivista del gruppo, la pittrice Lea Grundig: «Poter lavorare, esorcizzare il terrore dandovi forma, esprimerlo e diventare così più liberi; questa era la nostra gioia, la nostra lotta di ogni giorno, la nostra autoaffermazione quotidiana.















    Chiamarlo con il suo giusto nome affinché altri lo riconoscessero, disegnare il suo volto assassino, perché altri lo vedessero; consolidare la repulsione e suscitare l’odio, rafforzare l’amore e levare il pugno contro l’idra orrenda dalle mille teste: questo fu il nostro lavoro di quegli anni».  Gli artisti più significativi della Nuova oggettività furono i tedeschi George Grosz e Otto Dix, i quali realizzarono opere molto coraggiose, caratterizzate da una violenta carica satirica.







    Personaggi tragicomici dell’alta borghesia e dell’esercito, stravolti da fisionomie mostruose, appaiono preda dei loro impietosi tormenti esistenziali, legati al denaro, al sesso, alla schiavitù delle macchine. Viceversa, i proletari e i reduci della grande guerra sono spenti e svuotati, irrimediabilmente segnati dall’esperienza bellica.







    Otto Dix, Il venditore di fiammiferi, 1920. Olio e collage su tela, 141,5 x 166 cm. Stoccarda, Staatsgalerie.







    Otto Dix







    L’opera di Otto Dix (1891-1969) si colloca in tale contesto di coraggiosa, per quanto tragica, resistenza al nazismo. Arruolatosi come volontario nell’esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale, combatté in Russia, Polonia, Francia e nelle campagne delle Fiandre e tornò provato e traumatizzato. Nel 1919 conobbe Grosz e aderì al gruppo Dada berlinese, schierandosi sulle posizioni di un crudo realismo espressionista.















    Fondò, con altri, la Secessione di Dresda e la Nuova oggettività. Divenne uno dei più drammatici testimoni del suo tempo e denunciò, attraverso la caricatura e la deformazione grottesca,

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Nickcanz69 ,

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Ottimo punto di riferimento per i miei ragazzi che vogliono imparare l'arte in modo diverso. Ricco di spunti e informazioni.
Grazie per il tuo lavoro.
GIovanni

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