Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 8 giugno 2015
Commento a Atti 28, 25-31Alle nazioni è stata inviata questa salvezza di Dio Paolo scrive: “Nella prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito: tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentire tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli” (2Tm 4, 16-18). Solo Luca è rimasto con lui (2Tm 4,11). Il finale degli Atti non è monco, come a prima vista pare. È anzi la ricapitolazione di tutta l’opera di Luca; fa risuonare in pienezza tutti i temi svolti dall’inizio del racconto del Vangelo sino alla fine degli Atti. Protagonista è sempre la Parola di salvezza che passa ai pagani. Paolo ne è araldo e testimone esemplare. In questo finale è ripresa la duplice profezia di Simeone sul bambino Gesù, tema fondamentale di Luca. Egli è “la salvezza” di Dio da lui “preparata davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti (= i pagani)”. E proprio questa è la gloria di Israele (Lc 2,29-32). Infatti il seme di Abramo sarà benedizione per tutti, nessuno escluso (Gen 12,3b). Per questo il bambino sarà “segno di contraddizione”, “rovina” per chi la rifiuta e “risurrezione” per chi l’accoglie. La Parola è spada che divide, perché svela i pensieri dei cuori (Lc 2,34s). Proprio gli esclusi, i pagani, a differenza dei Giudei, l’accoglieranno ( cf At 28, 28). Ma se il “rifiuto” di una parte d’Israele, come si vede da tutti gli Atti, “ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la riammissione” di chi ha rifiutato “se non una risurrezione dai morti?” (Rm 11,15). Sarà il compimento del disegno di Dio, che ha lasciato tutti rinchiudersi “nella disobbedienza per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32; leggi il contesto di tutto il capitolo di Rm 11,25-36). Lo stesso ministero di Paolo ai gentili è tutto “nella speranza di suscitare la gelosia” dei suoi consanguinei (Rm 11,13s). La durezza di cuore nei confronti di Dio è antica quanto l’uomo. Già Adamo ascoltò la voce del serpente e fu sordo a quella di Dio. È il male originario, origine di ogni male. Paolo, come il profeta Isaia, rimprovera la stessa cosa ai suoi ascoltatori che non accolgono la sua parola che viene da Dio. Questo non è giudizio di condanna, ma estremo tentativo di farsi ascoltare. La denuncia di sordità e cecità è diagnosi necessaria per guarire udito e occhio. Queste parole sono tutt’altro che un’esclusione d’Israele dalla promessa che si è compiuta in Gesù. Paolo, ovunque è andato, è sempre entrato prima in sinagoga, tra i suoi fratelli e proseliti. A Roma non ha potuto perché agli arresti domiciliari. Ma si è premurato di convocare subito i Giudei, per organizzare un incontro in casa sua. Paolo si è già preparato il terreno con la lettera ai Romani, che è servita innanzi tutto a lui e a noi per comprendere il rapporto inscindibile tra Legge e Vangelo, tra promessa e compimento. Paolo confessa: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti io stesso essere anàtema, separato dal Cristo, a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene il Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” (Rm 9,2-5). Il fatto che la salvezza dei Giudei passi ai pagani è innanzitutto il compimento della promessa fatta ad Abramo: “Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione (…) e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2s). Questo non significa che i Giudei ne sono esclusi: ne sono anzi i primi beneficiari. È vero che solo “un resto” ha accolto il Cristo e molti l’hanno rifiutato. Ma l’indurimento di una parte d’Israele è momentaneo: sarà in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato” (Rm 11,25s). Il fine del disegno di Dio su tutti gli uomini è la loro unione fraterna sotto la benedizione di Abramo, padre di tutti i credenti. Egli è il Giusto per eccellenza, il nuovo Adamo. Infatti “credette nel Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6). Che cos’è l’ingiustizia, radice di ogni altra, se non quella di non credere all’amore del Padre? Anche gli ascoltatori giudei di Paolo che non accolgono il Cristo, sono già previsti dai Profeti e non bloccano il disegno di Dio né la sua fedeltà alla promesse (At 28,26-27). Dio per salvarci usa anche le nostre resistenze e il nostro male. La storia di Giuseppe è esemplare. Egli, dopo la morte del padre Giacobbe, dice ai suoi fratelli che temevano la sua vendetta: “Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,29). “Israele non dubita dell’universalità della salvezza. Sa di avere la missione di annunciarla al mondo intero. Glielo ricordano in particolare gli oracoli che riguardavano la vocazione del Servo di Dio: “Ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni” (Is 42,4-6) – “Mio Servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria (…). Ti renderò luce delle nazioni perché la mia salvezza raggiunga le estremità della terra” (Is 49,2-6). Si tratta di due testi chiave che la redazione lucana ha già applicato più volte a Paolo (At 13,47; 22,15; 26,17-18). Anche i giudei di Roma sono divisi di fronte al messaggio del testimone. Siccome Israele può svolgere la sua missione soltanto se ritrova la sua unità, bisogna che Paolo – e quelli che sono con lui o che gli succederanno – si rivolgano alle nazioni in nome dello stesso popolo d’Israele. Guai ad escluderli. Il mistero di Cristo morto e risorto ha già operato l’unità tra tutti gli uomini. Tutti siamo già uno in lui (cf Gal 3, 26,29). In questo finale degli Atti Luca tace sulla comparsa di Paolo davanti a Cesare e su un suo contatto con i cristiani di Roma. Forse i due silenzi sono connessi. In 2Tim 4,16 è scritto: “Nella mia prima difesa nessuno è stato al mio fianco, ma mi hanno tutti abbandonato; questo non venga loro imputato”. Luca è misericordioso e non parla dell’abbandono di Paolo da parte di coloro che avrebbero dovuto essergli vicini. D’altra parte anche Gesù fu abbandonato dai suoi. Per questo Luca termina con i rimproveri di Isaia ai suoi ascoltatori. Sono come quello che Paolo aveva scritto ai cristiani di Roma: “Se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non menar vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma la radice porta te. Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati per innestare me. Bene; essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi. Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te. (…) Quanto a loro, se non persevereranno nell’infedeltà (…), potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo” (Rm 11,16-19. 23a.24b). Queste parole, e non altre, Paolo ha rivolto, e rivolge ancora, ai cristiani di Roma. Già sono cristiani. Già conoscono, si spera, il Vangelo. Hanno però sempre bisogno, come noi tutti, di ascoltare le parole di Isaia ai Giudei del suo tempo. Ce n’è abbastanza, per non montare in superbia e non affogare la grazia del Vangelo in un’appartenenza di diritto, con poca fede e carità. Il vertice del testo è l’enunciazione che la salvezza di Dio passa ai pagani (At 28,28). Paolo l’aveva già detto in Asia Minore (At 13, 46) e in Grecia (At 18, 6). È il cuore stesso del Vangelo: Dio è padre di tutti e tutti siamo fratelli. Nei due versetti di chiusura degli Atti (At 28,30-31) vediamo Paolo che per circa due anni - più o meno come quelli del ministero di Gesù – continua il suo lavoro di “rematore della Parola”. L’opera di Luca – Vangelo e Atti – è una delle narrazioni maggiori della Bibbia. Termina con pochissime parole. L’effetto è singolare: pare un bue che finisce a coda di topo. I due ultimi brevi versetti sono la punta di questa coda: un punto. Ma questo è “il punto” degli Atti: una finestra infinita sui “due giorni della storia” che abbraccia passato e futuro. Da una parte guarda verso il “primo giorno”che si compie in Gesù, il nuovo Adamo, svolta centrale del tempo (die mitte der zeit), che riporta al Padre il vecchio Adamo. È quanto narra il Vangelo. Dall’altra parte guarda il “secondo giorno” che abbraccia la storia futura. Questo inizio comincia con il dono dello Spirito che ci fa entrare “oggi” nella “via” di Gesù. Così, con e come lui, anche noi torniamo al Padre volgendoci a tutti i fratelli, fino agli estremi confini della terra. Proprio qui, in questo finale, Paolo apre la storia di Gesù agli estremi confini della terra. Infatti è consegnato ai lontani, prigioniero del massimo potere di oppressione dell’uomo sull’uomo. Paolo per circa due anni (At 28,30a) si trova in un locale – ovviamente di un pagano perché affittato a proprie spese (v. At 28,30b). Lì “accoglie tutti” (At 28,30c). Diventa come l’uomo che sostituisce Gesù, il Samaritano, quando se ne va a Gerusalemme (cf. Lc 10,35). Qui compirà il primo giorno della storia nel suo “essere portato su nel cielo” (Lc 24,51). La via del ritorno, che ci guarisce dalle ferite mortali, è l