Lectio: Atti degli Apostoli

Silvano Fausti
Lectio: Atti degli Apostoli

Le lectio degli Atti degli Apostoli tenute da Silvano Fausti e dai suoi confratelli della Comunita di Villapizzone (Milano) il lunedi sera.L'icona è l'opera "Der Morgen am See" di Sieger Köder Eventuali ulteriori informazioni possono essere trovate su http://www.schwabenverlag-online.de/sk_vita.php

  1. 08/06/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 8 giugno 2015

    Commento a Atti 28, 25-31Alle nazioni è stata inviata questa salvezza di Dio Paolo scrive: “Nella prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito: tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentire tutti i Gentili: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli” (2Tm 4, 16-18). Solo Luca è rimasto con lui (2Tm 4,11). Il finale degli Atti non è monco, come a prima vista pare. È anzi la ricapitolazione di tutta l’opera di Luca; fa risuonare in pienezza tutti i temi svolti dall’inizio del racconto del Vangelo sino alla fine degli Atti. Protagonista è sempre la Parola di salvezza che passa ai pagani. Paolo ne è araldo e testimone esemplare. In questo finale è ripresa la duplice profezia di Simeone sul bambino Gesù, tema fondamentale di Luca. Egli è “la salvezza” di Dio da lui “preparata davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti (= i pagani)”. E proprio questa è la gloria di Israele (Lc 2,29-32). Infatti il seme di Abramo sarà benedizione per tutti, nessuno escluso (Gen 12,3b). Per questo il bambino sarà “segno di contraddizione”, “rovina” per chi la rifiuta e “risurrezione” per chi l’accoglie. La Parola è spada che divide, perché svela i pensieri dei cuori (Lc 2,34s). Proprio gli esclusi, i pagani, a differenza dei Giudei, l’accoglieranno ( cf At 28, 28). Ma se il “rifiuto” di una parte d’Israele, come si vede da tutti gli Atti, “ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la riammissione” di chi ha rifiutato “se non una risurrezione dai morti?” (Rm 11,15). Sarà il compimento del disegno di Dio, che ha lasciato tutti rinchiudersi “nella disobbedienza per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32; leggi il contesto di tutto il capitolo di Rm 11,25-36). Lo stesso ministero di Paolo ai gentili è tutto “nella speranza di suscitare la gelosia” dei suoi consanguinei (Rm 11,13s). La durezza di cuore nei confronti di Dio è antica quanto l’uomo. Già Adamo ascoltò la voce del serpente e fu sordo a quella di Dio. È il male originario, origine di ogni male. Paolo, come il profeta Isaia, rimprovera la stessa cosa ai suoi ascoltatori che non accolgono la sua parola che viene da Dio. Questo non è giudizio di condanna, ma estremo tentativo di farsi ascoltare. La denuncia di sordità e cecità è diagnosi necessaria per guarire udito e occhio. Queste parole sono tutt’altro che un’esclusione d’Israele dalla promessa che si è compiuta in Gesù. Paolo, ovunque è andato, è sempre entrato prima in sinagoga, tra i suoi fratelli e proseliti. A Roma non ha potuto perché agli arresti domiciliari. Ma si è premurato di convocare subito i Giudei, per organizzare un incontro in casa sua. Paolo si è già preparato il terreno con la lettera ai Romani, che è servita innanzi tutto a lui e a noi per comprendere il rapporto inscindibile tra Legge e Vangelo, tra promessa e compimento. Paolo confessa: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti io stesso essere anàtema, separato dal Cristo, a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene il Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” (Rm 9,2-5). Il fatto che la salvezza dei Giudei passi ai pagani è innanzitutto il compimento della promessa fatta ad Abramo: “Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione (…) e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2s). Questo non significa che i Giudei ne sono esclusi: ne sono anzi i primi beneficiari. È vero che solo “un resto” ha accolto il Cristo e molti l’hanno rifiutato. Ma l’indurimento di una parte d’Israele è momentaneo: sarà in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato” (Rm 11,25s). Il fine del disegno di Dio su tutti gli uomini è la loro unione fraterna sotto la benedizione di Abramo, padre di tutti i credenti. Egli è il Giusto per eccellenza, il nuovo Adamo. Infatti “credette nel Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6). Che cos’è l’ingiustizia, radice di ogni altra, se non quella di non credere all’amore del Padre? Anche gli ascoltatori giudei di Paolo che non accolgono il Cristo, sono già previsti dai Profeti e non bloccano il disegno di Dio né la sua fedeltà alla promesse (At 28,26-27). Dio per salvarci usa anche le nostre resistenze e il nostro male. La storia di Giuseppe è esemplare. Egli, dopo la morte del padre Giacobbe, dice ai suoi fratelli che temevano la sua vendetta: “Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,29). “Israele non dubita dell’universalità della salvezza. Sa di avere la missione di annunciarla al mondo intero. Glielo ricordano in particolare gli oracoli che riguardavano la vocazione del Servo di Dio: “Ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni” (Is 42,4-6) – “Mio Servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria (…). Ti renderò luce delle nazioni perché la mia salvezza raggiunga le estremità della terra” (Is 49,2-6). Si tratta di due testi chiave che la redazione lucana ha già applicato più volte a Paolo (At 13,47; 22,15; 26,17-18). Anche i giudei di Roma sono divisi di fronte al messaggio del testimone. Siccome Israele può svolgere la sua missione soltanto se ritrova la sua unità, bisogna che Paolo – e quelli che sono con lui o che gli succederanno – si rivolgano alle nazioni in nome dello stesso popolo d’Israele. Guai ad escluderli. Il mistero di Cristo morto e risorto ha già operato l’unità tra tutti gli uomini. Tutti siamo già uno in lui (cf Gal 3, 26,29). In questo finale degli Atti Luca tace sulla comparsa di Paolo davanti a Cesare e su un suo contatto con i cristiani di Roma. Forse i due silenzi sono connessi. In 2Tim 4,16 è scritto: “Nella mia prima difesa nessuno è stato al mio fianco, ma mi hanno tutti abbandonato; questo non venga loro imputato”. Luca è misericordioso e non parla dell’abbandono di Paolo da parte di coloro che avrebbero dovuto essergli vicini. D’altra parte anche Gesù fu abbandonato dai suoi. Per questo Luca termina con i rimproveri di Isaia ai suoi ascoltatori. Sono come quello che Paolo aveva scritto ai cristiani di Roma: “Se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non menar vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma la radice porta te. Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati per innestare me. Bene; essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi. Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te. (…) Quanto a loro, se non persevereranno nell’infedeltà (…), potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo” (Rm 11,16-19. 23a.24b). Queste parole, e non altre, Paolo ha rivolto, e rivolge ancora, ai cristiani di Roma. Già sono cristiani. Già conoscono, si spera, il Vangelo. Hanno però sempre bisogno, come noi tutti, di ascoltare le parole di Isaia ai Giudei del suo tempo. Ce n’è abbastanza, per non montare in superbia e non affogare la grazia del Vangelo in un’appartenenza di diritto, con poca fede e carità. Il vertice del testo è l’enunciazione che la salvezza di Dio passa ai pagani (At 28,28). Paolo l’aveva già detto in Asia Minore (At 13, 46) e in Grecia (At 18, 6). È il cuore stesso del Vangelo: Dio è padre di tutti e tutti siamo fratelli. Nei due versetti di chiusura degli Atti (At 28,30-31) vediamo Paolo che per circa due anni - più o meno come quelli del ministero di Gesù – continua il suo lavoro di “rematore della Parola”. L’opera di Luca – Vangelo e Atti – è una delle narrazioni maggiori della Bibbia. Termina con pochissime parole. L’effetto è singolare: pare un bue che finisce a coda di topo. I due ultimi brevi versetti sono la punta di questa coda: un punto. Ma questo è “il punto” degli Atti: una finestra infinita sui “due giorni della storia” che abbraccia passato e futuro. Da una parte guarda verso il “primo giorno”che si compie in Gesù, il nuovo Adamo, svolta centrale del tempo (die mitte der zeit), che riporta al Padre il vecchio Adamo. È quanto narra il Vangelo. Dall’altra parte guarda il “secondo giorno” che abbraccia la storia futura. Questo inizio comincia con il dono dello Spirito che ci fa entrare “oggi” nella “via” di Gesù. Così, con e come lui, anche noi torniamo al Padre volgendoci a tutti i fratelli, fino agli estremi confini della terra. Proprio qui, in questo finale, Paolo apre la storia di Gesù agli estremi confini della terra. Infatti è consegnato ai lontani, prigioniero del massimo potere di oppressione dell’uomo sull’uomo. Paolo per circa due anni (At 28,30a) si trova in un locale – ovviamente di un pagano perché affittato a proprie spese (v. At 28,30b). Lì “accoglie tutti” (At 28,30c). Diventa come l’uomo che sostituisce Gesù, il Samaritano, quando se ne va a Gerusalemme (cf. Lc 10,35). Qui compirà il primo giorno della storia nel suo “essere portato su nel cielo” (Lc 24,51). La via del ritorno, che ci guarisce dalle ferite mortali, è l

    1 h 26 min
  2. 25/05/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 25 maggio 2015

    Commento a Atti 28, 11-24Così arrivammo a Roma La navigazione per raggiungere Roma riprende dopo tre mesi. La nave viene da Alessandria e porta le insegne dei “Dioscuri”, i gemelli figli di Giove, protettori dei naviganti. La prima sosta è a Siracusa dove restano tre giorni. Da lì giungono a Reggio, sullo stretto tra Scilla e Cariddi e, dopo un giorno di navigazione, un vento australe li spinge in tre giorni a Pozzuoli, nel Golfo di Napoli, grande porto tra Roma e l’Oriente. Lì trovano una comunità cristiana, dove sono pregati di restare sette giorni. Nel frattempo la notizia del suo arrivo lo precede a Roma. Paolo arriva a Roma con questi sentimenti: “Quanto a me il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione” (2 Tm 4,6-8). Dei fratelli di Roma gli vengono incontro al foro Appio e alle tre Taverne, rispettivamente a 65 km e 50 km da Roma. La cosa gli dà coraggio. Temeva di non essere accolto bene. Gli Atti sono sobri sull’accoglienza ricevuta a Roma. Ce ne parla però in termini negativi 2Tm 4,9-18. E “così arrivammo a Roma”, la meta desiderata. Luca, che ha seguito Paolo, esprime con sobrietà il grande evento. Da qui scompare dalla narrazione il “noi”. L’obiettivo è puntato solo su Paolo, il protagonista. Dio aveva scelto lui come “vaso eletto” per portare il nome di Gesù a tutti i pagani ( At 9,15). A Roma è concesso a Paolo di restare fuori prigione, agli arresti domiciliari con un soldato di guardia. Dopo tre giorni, non potendo andare in sinagoga, convoca i notabili Giudei. Ovunque è andato, Paolo si è sempre prima rivolto ai Giudei, destinatari della promessa. Li ama tanto da dire: “ Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne (Rm 9,3). Davanti a loro Paolo si presenta e fa una breve apologia di sé: ha fatto nulla contro il popolo e le sue tradizioni. Eppure fu consegnato ai Romani, per l’equivoco che conosciamo sul tempio. Fu riconosciuto innocente e volevano liberarlo, ma i Giudei si opponevano. Per questo fu costretto ad appellarsi a Cesare. Dicendo sobriamente cose note al lettore, conclude che le sue catene sono solo a motivo della speranza d’Israele, ossia la risurrezione, che contrappone Sadducei e Farisei. A Roma non sanno nulla di questo, ma desiderano sapere qualcosa sulla setta o partito dei seguaci di Gesù, che trova ovunque opposizione. Fissano un giorno per incontrarsi; e numerosi di Giudei si recano da lui. E lui rende davanti a tutti testimonianza sul Regno di Dio, ossia Gesù, compimento della Legge e dei profeti. Parla da mattino a sera. Come sempre, alcuni furono convinti e altri restavano increduli. Divisione del testo: a. vv. 11-13: viaggio da Malta a Pozzuoli b. vv. 14-15: da Pozzuoli a Roma c. vv. 16-20: entrata in Roma e apologia di Paolo verso i Giudei d. vv. 21-22: niente contro Paolo e desiderio di conoscere l’eresia cristiana e. vv. 23-24: testimonianza su Gesù accolta o rifiutata

    1 h 18 min
  3. 18/05/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 18 maggio 2015

    Commento a Atti 28, 1-10Quest’uomo è un assassino ... un dio Nonostante la pioggia, un interludio di quiete dopo la tempesta. L’approdo a Malta è una cordiale accoglienza. I naufraghi, afflitti da freddo e stress, sono confortati da un falò acceso dagli indigeni. Ma anche qui succede un incidente con pericolo di morte. Se sul mare c’era burrasca, a terra c’è una vipera. Si nasconde nella bracciata di sarmenti che Paolo ha raccolto per ravvivare il fuoco. Anche in questa situazione non si tira indietro dal lavorare con le proprie mani. È per lui un punto d’onore: preferirebbe morire piuttosto che fare il contrario (1Cor 9,15). Non è un parassita. Non campa sulla parola che dice, come fanno retori e predicatori. Al contrario, testimonia ciò che dice con la sua vita. Fino a dare la vita stessa. La vipera, buttata sul fuoco insieme al fascio di legna, salta fuori dalle fiamme e morde la mano di Paolo. Lui la scrolla svelto nel fuoco, ma troppo tardi. La gente di Malta pensa subito che sia un assassino, che gli Dei vogliono punire. Hanno tentato prima con la burrasca, anche al costo di affondare 275 giusti insieme a lui. Deve essere un delinquente particolarmente perverso: scampato non si sa come dal mare, la vendetta divina lo insegue per terra mediante una vipera. Gli indigeni si aspettano che la mano si gonfi e che lui cada stecchito a terra. Con meraviglia succede niente. Allora il supposto delinquente pensano che sia un dio. L’episodio serve al lettore per sottolineare ancora una volta che Paolo è un giusto, protetto da Dio sia dalla tempesta che dal veleno della vipera. E Paolo, come in mare salvò tutti dal naufragio, in terra guarì il padre di Publio e tutti i malati dell’isola che in seguito venivano da lui. Sostò tre mesi a Malta, in attesa di vento e nave giusta. Nel frattempo non ha certo oziato. Non si dice che abbia evangelizzato. Chi ha letto gli Atti degli Apostoli fino a qui, può supporlo come ovvio. L’apostolo evangelizza ovunque si trova, sempre spinto dall’amore di Cristo, che “è morto per tutti” (2Cor 5,14). Sia il viaggio, sia le soste forzate, sia la prigionia, tutto è per l’apostolo opportunità per testimoniare il suo Maestro. Non a caso diceva Nadal dei primi gesuiti: “Casa dell’apostolo è la via”. Tutte le strade, percorse dai piedi dell’uomo che fugge da Dio, diventano luogo d’incontro con ogni fratello per il quale il Signore ha dato la vita. Agli estremi confini della terra, vediamo negli Atti, si arriva non in carrozza o in aereo di prima classe. La Parola si diffonde come il seme sparso sulla terra. Le persecuzioni dei nemici sono la mano stessa di Dio che dissemina la Parola ovunque. E le contrarietà, le vie chiuse e gli incidenti, “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. (Rm8,28). La promessa di Mc 16,18 non viene da questo episodio degli Atti. Apparteneva già alla tradizione: è la vittoria sul serpente, la cui menzogna sta all’origine della storia di perdizione e salvezza. La stirpe di Adamo gli schiaccerà la testa (Gen 3,15) salvezza (cf Lc 10, 19!). Tutta la predicazione di Paolo è una vittoria sulla menzogna che ci avvelenò di morte l’esistenza. Questo racconto sulla vipera è compimento della salvezza promessa, segno di tutta l’attività evangelizzatrice di Paolo. La Parola, come sempre in Luca, è anche terapia del corpo e salvezza dell’uomo. Il lettore comprende come il discepolo porta a compimento e continua a fare e dire ciò che il Maestro cominciò a fare e dire. Come in 27, 1-44 Paolo è salvato dalle acque, qui a Malta diventa a sua volta salvatore di tutti e da ogni male. La salvezza non è una parola vuota, ma il racconto di un fatto di salvezza che viene testimoniato e dato a tutti, con gesti concreti, dove le miserie e i limiti diventano luogo di misericordia e comunione. Divisione del testo: a. vv.1-2: buona accoglienza dei naufraghi b. vv. 3-6: Paolo morso da vipera: da maledetto promosso a Dio c. vv.:7-10: guarigione del padre di Publio e di tanti altri

    1 h 15 min
  4. 11/05/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 11 maggio 2015

    Commento a Atti 27, 21-44Vi esorto a prendere cibo: è necessario per la vostra salvezza È l’autunno del’anno 60 d.C. Finalmente Paolo parte per Roma. Le vicende giudiziarie, con la lentezza, le arbitrarietà e insensatezze burocratiche, realizzano la sua decisione di andare a Roma (19,21). In essa lo confermò il Signore stesso la notte dopo l’ultimo tentativo di linciaggio subito nel Sinedrio. Venne infatti a confortarlo con le parole: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, bisogna che anche a Roma tu testimoni” (23,11). Lì punta ora il corso della salvezza, guidato da Dio “fino agli estremi confini della terra” (1,8). Glielo confermerà anche un angelo di Dio durante la traversata burrascosa: “Non temere, Paolo! Bisogna che tu compaia davanti a Cesare” Paolo è il prototipo degli inviati che portano l’annuncio messianico a tutti: in concreto lo porta nel cuore dell’impero romano che abbracciava l’Europa, l’Asia minore e tutto il nord Africa. Grazie a Paolo saranno salvati anche i suoi compagni di viaggio (27,24), prefigurazione dell’umanità intera. Siamo infatti tutti sulla stessa barca. La nostra esistenza è turbine tempestoso che ci scaglia contro gli scogli e ci sommerge nell’abisso. Eppure tutti siamo salvati “dal viaggio” della Parola che porta salvezza al mondo. Il racconto raffigura l’effetto salvifico di Cristo attraverso il suo testimone. In lui opera la morte perché in tutti gli altri vinca la vita (leggi 2Cor 4,7-18!). Il Venerdì Santo, quando Gesù, luce del mondo, fu crocifisso, si fece tenebra sulla terra. Questa tenebra del Venerdì Santo continua nella croce dei suoi testimoni. E dura non una, ma due settimane, cioè per sempre, fino a quando si compirà il giorno del ritorno al Padre di tutti i suoi figli e “Dio sia tutto in tutti” ( Cor 15,26). Nella traversata per giungere al centro del potere mondano Luca mostra “le sue capacità letterario-narrative, costruendo un racconto colorito, vivace, drammatico, pieno di dettagli, di supense, e avventure, narrato in prima persona plurale. Il che rafforza la concretezza e coinvolge nel “noi” il lettore stesso. Da abile scrittore, Luca ci tiene a chiudere la sua opera con un finale grandioso, quasi da fuochi d’artificio. La storia non è un arida somma di dati. Lo storiografo antico racconta con uno stile all’altezza dell’argomento trattato. Il modo di dire è l’arte che rende la realtà attraente e leggibile. Il finale degli Atti è non meno grandioso e sorprendente di quello del Vangelo, dove è sconfitta la morte: invece di essere gettati nell’abisso, siamo risucchiati dal cielo sereno che si apre per accoglierci. Il naufragio è metafora della vicenda di ogni uomo e dell’umanità intera, destinata ad affogare in se stessa. Eppure la nave dovrebbe attraversare il mare e le sue burrasche! E per di più è carica di frumento, alimento di vita. Su questa nave che si sfascerà, Paolo celebra la sua “messa sul mondo”, che porta salvezza a tutti i naufraghi della vita. I verbi del testo sono al “noi”. Luca è presente, con Paolo e tutti gli altri. Pure noi lettori facciamo parte di questa barca, come chiunque. Nella traversata della vita siamo tutti vittime della stessa sorte: la morte. Ma la presenza di Paolo, con la Parola che dice e il Pane che spezza, è salvezza per tutti. La Parola e il Pane di Gesù lo hanno fatto uno con Lui, con il suo stesso cammino e la sua stessa meta. Certamente Luca nei capitoli precedenti ha ricalcato il processo di Paolo su quello del suo Maestro. Anche il suo viaggio a Roma è come il cammino di Gesù nella sua passione. Non mancano somiglianze: la predizione ( At 27,10; cf Lc 22,37s), la violenza della tempesta (At 27,18-20, cf. Lc 18,33 e Lc 23, 44: flagellazione e crocifissione), oscurarsi del cielo (At 27,20; Lc 23,44), estenuazione fisica (At 27,21.33, cf Lc 23,44.45a: Gesù morente), il rompersi di tutta la barca (At 27,41, cf Lc 23,45b: rompersi del velo e morte di Gesù). Oltre questo confronto allusivo puntuale tra passione di Paolo e di Gesù, si rileva un tema generale di fondo, che si rifà alle parole di Gesù in Luca 6,40: “Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro”. Davanti a prove e sofferenze, Paolo ha lo stesso “stile” del suo maestro: “niente fuga, fiducia totale in Dio e preghiera”. Attraverso l’accettazione delle prove, Paolo è divenuto in tutto sempre più come il suo Maestro. Infine si nota come la morte di Gesù in Lc 23 e il naufragio di Paolo in At 27 hanno la stessa funzione narrativa: sottolinea definitivamente l’innocenza dei due protagonisti. Paolo stesso aveva scritto : “Sono stato crocifisso con Cristo e non son più io che vivo, ma Cristo vive i me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). La vita di Paolo è risposta d’amore all’amore. E l’amore fa l’amante simile all’amato. Gesù e Paolo sono due che diventano “uno” nell’amore: hanno lo stesso volto, che rispecchia la stessa gloria. In breve: nel cap. 27 l’esistenza umana, nella sua storia di perdizione, diventa storia di salvezza. Il passaggio avviene tramite Paolo. Il suo volto e il suo Spirito è lo stesso del suo Signore che indurì il volto per camminare verso Gerusalemme e mettersi nelle mani di tutti per salvare tutti (cf Lc 9,51ss). Il racconto presenta il prigioniero Paolo che, pieno di fede, tiene a bada le forze del male. Dà consigli alla ciurma della nave e ai Romani. Garantisce a tutti salvezza nel e non dal naufragio; ed esorta tutti a prendere il cibo che salva dal pericolo di perire. È l’eucaristia (27,35; cf. 28,15 e Lc 22,17.19). Nonostante le forze ostili, sia degli uomini che della natura, siamo tutti destinati a salvezza grazie alla solidarietà del “giusto” con noi. Paolo è “il positivo” di Giona, il missionario che compie la sua missione a imitazione del Maestro, che già aveva salvato dalle tempeste i suoi discepoli in barca. Paolo, prigioniero per Cristo, è come Cristo: salva i suoi compagni prigionieri della morte. Divisione del testo: a. vv. 21-26: Paolo, avvisato dall’angelo, promette salvezza delle persone b. vv. 27-32: il rischio di naufragio c. vv. 33-38: eucarestia sul mondo d. vv. 39-44: avventuroso approdo a Malta

    1 h 17 min
  5. 08/05/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 4 maggio 2015

    Commento a Atti 27, 1-20Uomini, vedo che la navigazione sta diventando rischiosa È l’autunno del’anno 60 d.C. Finalmente Paolo parte per Roma. Le vicende giudiziarie, con la lentezza, le arbitrarietà e insensatezze burocratiche, realizzano la sua decisione di andare a Roma (19,21). In essa lo confermò il Signore stesso la notte dopo l’ultimo tentativo di linciaggio subito nel Sinedrio. Venne infatti a confortarlo con le parole: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, bisogna che anche a Roma tu testimoni” (23,11). Lì punta ora il corso della salvezza, guidato da Dio “fino agli estremi confini della terra” (1,8). Glielo confermerà anche un angelo di Dio durante la traversata burrascosa: “Non temere, Paolo! Bisogna che tu compaia davanti a Cesare” Paolo è il prototipo degli inviati che portano l’annuncio messianico a tutti: in concreto lo porta nel cuore dell’impero romano che abbracciava l’Europa, l’Asia minore e tutto il nord Africa. Grazie a Paolo saranno salvati anche i suoi compagni di viaggio (27,24), prefigurazione dell’umanità intera. Siamo infatti tutti sulla stessa barca. La nostra esistenza è turbine tempestoso che ci scaglia contro gli scogli e ci sommerge nell’abisso. Eppure tutti siamo salvati “dal viaggio” della Parola che porta salvezza al mondo. Il racconto raffigura l’effetto salvifico di Cristo attraverso il suo testimone. In lui opera la morte perché in tutti gli altri vinca la vita (leggi 2Cor 4,7-18!). Il Venerdì Santo, quando Gesù, luce del mondo, fu crocifisso, si fece tenebra sulla terra. Questa tenebra del Venerdì Santo continua nella croce dei suoi testimoni. E dura non una, ma due settimane, cioè per sempre, fino a quando si compirà il giorno del ritorno al Padre di tutti i suoi figli e “Dio sia tutto in tutti” ( Cor 15,26). Nella traversata per giungere al centro del potere mondano Luca mostra “le sue capacità letterario-narrative, costruendo un racconto colorito, vivace, drammatico, pieno di dettagli, di supense, e avventure, narrato in prima persona plurale. Il che rafforza la concretezza e coinvolge nel “noi” il lettore stesso. Da abile scrittore, Luca ci tiene a chiudere la sua opera con un finale grandioso, quasi da fuochi d’artificio. La storia non è un arida somma di dati. Lo storiografo antico racconta con uno stile all’altezza dell’argomento trattato. Il modo di dire è l’arte che rende la realtà attraente e leggibile. Il finale degli Atti è non meno grandioso e sorprendente di quello del Vangelo, dove è sconfitta la morte: invece di essere gettati nell’abisso, siamo risucchiati dal cielo sereno che si apre per accoglierci. Il naufragio è metafora della vicenda di ogni uomo e dell’umanità intera, destinata ad affogare in se stessa. Eppure la nave dovrebbe attraversare il mare e le sue burrasche! E per di più è carica di frumento, alimento di vita. Su questa nave che si sfascerà, Paolo celebra la sua “messa sul mondo”, che porta salvezza a tutti i naufraghi della vita. I verbi del testo sono al “noi”. Luca è presente, con Paolo e tutti gli altri. Pure noi lettori facciamo parte di questa barca, come chiunque. Nella traversata della vita siamo tutti vittime della stessa sorte: la morte. Ma la presenza di Paolo, con la Parola che dice e il Pane che spezza, è salvezza per tutti. La Parola e il Pane di Gesù lo hanno fatto uno con Lui, con il suo stesso cammino e la sua stessa meta. Certamente Luca nei capitoli precedenti ha ricalcato il processo di Paolo su quello del suo Maestro. Anche il suo viaggio a Roma è come il cammino di Gesù nella sua passione. Non mancano somiglianze: la predizione ( At 27,10; cf Lc 22,37s), la violenza della tempesta (At 27,18-20, cf. Lc 18,33 e Lc 23, 44: flagellazione e crocifissione), oscurarsi del cielo (At 27,20; Lc 23,44), estenuazione fisica (At 27,21.33, cf Lc 23,44.45a: Gesù morente), il rompersi di tutta la barca (At 27,41, cf Lc 23,45b: rompersi del velo e morte di Gesù). Oltre questo confronto allusivo puntuale tra passione di Paolo e di Gesù, si rileva un tema generale di fondo, che si rifà alle parole di Gesù in Luca 6,40: “Il discepolo non è più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro”. Davanti a prove e sofferenze, Paolo ha lo stesso “stile” del suo maestro: “niente fuga, fiducia totale in Dio e preghiera”. Attraverso l’accettazione delle prove, Paolo è divenuto in tutto sempre più come il suo Maestro. Infine si nota come la morte di Gesù in Lc 23 e il naufragio di Paolo in At 27 hanno la stessa funzione narrativa: sottolinea definitivamente l’innocenza dei due protagonisti. Paolo stesso aveva scritto : “Sono stato crocifisso con Cristo e non son più io che vivo, ma Cristo vive i me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). La vita di Paolo è risposta d’amore all’amore. E l’amore fa l’amante simile all’amato. Gesù e Paolo sono due che diventano “uno” nell’amore: hanno lo stesso volto, che rispecchia la stessa gloria. In breve: nel cap. 27 l’esistenza umana, nella sua storia di perdizione, diventa storia di salvezza. Il passaggio avviene tramite Paolo. Il suo volto e il suo Spirito è lo stesso del suo Signore che indurì il volto per camminare verso Gerusalemme e mettersi nelle mani di tutti per salvare tutti (cf Lc 9,51ss). Il racconto presenta il prigioniero Paolo che, pieno di fede, tiene a bada le forze del male. Dà consigli alla ciurma della nave e ai Romani. Garantisce a tutti salvezza nel e non dal naufragio; ed esorta tutti a prendere il cibo che salva dal pericolo di perire. È l’eucaristia (27,35; cf. 28,15 e Lc 22,17.19). Nonostante le forze ostili, sia degli uomini che della natura, siamo tutti destinati a salvezza grazie alla solidarietà del “giusto” con noi. Paolo è “il positivo” di Giona, il missionario che compie la sua missione a imitazione del Maestro, che già aveva salvato dalle tempeste i suoi discepoli in barca. Paolo, prigioniero per Cristo, è come Cristo: salva i suoi compagni prigionieri della morte. Divisione del testo: a. vv. 1-8: partenza per Roma e sosta a Lasaia b. vv. 9-12: partenza da Lasaia sconsigliata da Paolo per la previsione della tempesta c. vv. 13-20: la tempesta

    1 h 25 min
  6. 27/04/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 27 aprile 2015

    Commento a Atti 26, 24-33Sei matto, Paolo!” ... "Per poco mi persuadi a farmi cristiano! All’origine di ogni pensare e fare umano sta il desiderio di bloccare e vincere la morte. Per questo le parole di Paolo sulla risurrezione interpellano tutti. Poveri e ricchi, schiavi e potenti, pagani o giudei, sono chiamati a convertirsi al Dio della vita. La reazione all’annuncio di Paolo è il rifiuto a priori di Festo:“Tu sei matto”, oppure l’interesse di Agrippa: “Per poco mi persuadi”. La riposta negativa o positiva, incipiente o piena. è lasciata alla nostra libertà. La realtà è comunque quella che è. Sta a noi negarla o accettarla. Come ad Atene, Paolo è interrotto mentre parla della risurrezione. I Greci, più educatamente, gli dissero : “Ti ascolteremo un’altra volta” (At 17,32). Il rozzo liberto Festo, più direttamente, dice a Paolo che delira, impazzito dal troppo sapere (v.24).“Chi troppo studia ei poi pazzo diventa”. Qualunque sia la reazione, Paolo ha comunque detto ciò che voleva. La parola è seme caduto sulla terra, sempre pronto a germogliare se è accolto. Per questo Luca annota le reazioni di Festo e Agrippa: sono le stesse del lettore che si identifica con loro. Davanti alla risurrezione nessuno è indifferente. O si reagisce come Festo, che la ritiene impossibile, o come Agrippa che quasi quasi si farebbe cristiano! Festo non a caso interviene dopo aver sentito parlare della risurrezione di Gesù, anticipo della nostra. È ciò che i pagani ignorano: solo gli dei sono immortali. Anche i sadducei, a differenza dei farisei, negano che ci sia risurrezione. Per Festo parlare di risurrezione è un delirare fuori dal solco di ogni buon senso. L’uomo è “humus”, terra: dalla terra viene e alla terra ritorna. L’uomo è memoria mortis: sa che non spetta a lui la vita. La morte è l’ultima parola. La luce si spegne e l’oscurità dell’Ade avvolge tutti. Non c’è morto che rigermogli dal sottosuolo. Al massimo c’è l’“apoteosi”, vaga forma di divinizzazione riservata agli imperatori e agli eroi. Costoro, pur mortali e morti, non (si) sono ritenuti pari ai comuni mortali. Ma tale divinizzazione è un evidente delirio dei loro successori, che con loro si identificano. In realtà i potenti non hanno alcun potere di dare vita a sé o ad altri. L’unico potere che hanno è quello di dare e seminare morte. L’uomo riceve e trasmette la vita. Ma si tratta sempre e solo di vita caduca. La scadenza, certa e imprevedibile, è comunque puntuale come la morte: viene quando viene, né un attimo prima né un attimo dopo. Inoltre è chiaro che all’uomo è impossibile dar vita a un morto, anche se gli riesce bene dare morte a un vivo. La vita non è in nostro potere. È solo in potere della Vita dar vita. L’uomo non può produrre, ma solo ricevere o trasmettere una vita mortale. È talora in grado di ritardare la morte, ma non di sconfiggerla. Quanto al risuscitare un morto non se ne parla. La resurrezione non è produzione di forza d’uomo né deduzione di suoi ragionamenti. Non ci è possibile neppure pensare di operarla – se non in casi di grave delirio. Ma siamo “in grave errore” (Mc 12,24.27!) se pensiamo che sia reale solo ciò che è possibile a noi. L’universo e tutto il suo arredamento- uomini e bestie compresi!- è uno spettacolo continuo che nessuno di noi è in grado di fare o pensare di fare. Davanti ad esso, presi da meraviglia, a stento balbettiamo qualcosa! Neppure la nostra vita siamo in grado di produrre – tranne chi ritiene di essersi fatto da sé, senza accorgersi che si è semplicemente “fatto”. Eppure la nostra vita è corrente di energia che passa nel fragile filo della nostra esistenza. Ma non è generata dal filo. La risurrezione è pensabile solo partendo dalle possibilità della Vita stessa, che non produciamo noi, ma che riceviamo in dono. Neppure un’infinita serie di mortali può dare origine alla vita. Infinite cifre dopo una virgola con lo zero davanti, non fanno mai uno. Per questo Gesù dice ai Sadducei che ignorano la promessa e la potenza di Dio. Solo partendo da lui si può parlare di vita e di quanto c’è. Le varie scienze non possono che studiare ciò che c’è, o, al massimo simularlo utilmente per scopi positivi o negativi. “Sapere è potere. Potere di servire e migliorare o di dominare e distruggere. La risurrezione è l’apice del cosmo, che tutto aspira alla pienezza di vita. “Perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sovrani sulla terra” (Sap 1,13ss.). La promessa di Dio è la Scrittura che lo rivela nelle sue opere e la sua potenza è l’esperienza personale del suo amore (cf. Mc 12,24). Non a caso nei tre sinottici la disputa sulla risurrezione è posta tra il tributo a Cesare - rappresentante del potere di dar morte a tutti - e il comando dell’amore - potere di Dio che a tutti dà vita. Il Dio della Bibbia “non è un Dio dei morti, ma dei viventi” (Mc 12,27). Ed è “ragionevole” che Dio ci sia e sia così. Altrimenti il dio sarebbe la morte e la morte non può produrre nulla. Se Dio non ci fosse non ci sarebbe nulla di ciò che c’è, neanche chi lo nega. L’ateismo pratico non è razionale. Ma ragionevole, con radici più profonde della ragione. È un tipico fenomeno ebraico cristiano, che viene dal profondo del cuore. Nega infatti quel Dio che si paluda da padrone di tutto e di tutti, legislatore che tutela il suo potere e giudice supremo che si fa anche boia di chi si ribella. Questa è l’immagine di Dio che uscì dalla bocca del serpente (cf Gen 3,1ss.). È la maschera satanica di quel dio che le religioni venerano e che gli atei negano. È quel dio che se “non ci fosse bisognerebbe inventarlo” per giustificare il potere dell’uomo sull’uomo. Ma “se ci fosse, bisognerebbe ucciderlo” per liberare l’uomo. Origine dell’ateismo è quindi la falsa immagine di Dio comune a tutti. Si chiama peccato originale, perché è poco “originale”. È anzi comune a tutti e produce ogni equivovo e male. Uno diventa come quel dio che si immagine. Anche i primi cristiani erano perseguitati come “atei”.Infatti il loro Dio è il crocifisso da tutti i potenti e non il potente che mette in croce tutti. La croce “sdemonizza Dio” e intacca le radici di ogni potere, abolendo la mentalità “padronale”. Se l’ateismo pratico ha la sua origine in una falsa immagine di Dio, l’ateismo teorico invece è una banalità logica: dalla morte non viene la vita e dal niente viene niente. L’esperienza invece dice che ci sia qualcosa o, che è lo stesso, l’illusione che di qualcosa. Unica argomentazione pro ateismo - creduta con gran fede come razionale - è quella di Feuerbach. Secondo lui Dio sarebbe proiezione dei nostri desideri. A parte che è impossibile provare una non esistenza, questa argomentazione è illogica. Sarebbe come dire che, se hai fame, il cibo non esiste: è semplice proiezione della tua fame. Certo è che la fame non produce il cibo. Dalla fame però si può dedurre certamente che ci sia il cibo. Sono d’accordo con Margherita Hack quando dice che l’ateismo è una fede. Se si traveste di razionalità, va contro la ragione: diventa supponente, strombazzante e intollerante. Anche il panteismo, diverso dal panenteismo, è irrazionale: la somma di infinite insufficienze non fa una sufficienza, neanche nella peggior scuola di quartiere! Nessuno di noi ha fatto se stesso o l’universo. L’uomo non è “faber” di sé o di altro da sé: è tras-formatore di sé e di ogni realtà, che preesiste a lui. Il suo intervento gli serve per vivere e vivere meglio, prendendo, coltivando e custodendo ciò che c’è. Comunque la nostra prima azione è “prendere” e “mangiare”, come i bambini. Solo di conseguenza poi facciamo e continuiamo a fare per tutta l’esistenza, fino a dopo il decesso, pipì e popò! Uno immagini quanta ne facciamo e come sarebbe grave, anzi mortale, il contrario. Chi fa queste due azioni, fondamentali e più che quotidiane, comuni al superuomo e al bambino, comincia un po’ alla volta a modulare e articolare i suoni, per creare la parola, segno di ogni realtà e principio di ogni comunicazione e ulteriore trasformazione, dalla danza alla musica, dalla scultura alla poesia. Solo nell’arte diventiamo creatori, dato che la nostra “arte a Dio quasi è nepote”. E che dire della filosofia e della teologia? Se non fioriscono in una vita bella e buona, sono ”palea”, paglia da bruciare, direbbe Tommaso d’Aquino. Sono secrezioni corrosive di un cervello delirante, che scambia idee per realtà, supporto a ogni potere di morte. NB. Bisogna distinguere la risurrezione dalla rianimazione di un corpo che torna a vita mortale. È il caso di Lazzaro, morto e restituito vivo alle sue sorelle, e di altri casi simili narrati altrove. La risurrezione è una “divinizzazione” del corpo. L’uomo è corpo ed ha l’anima! Per risurrezione intendiamo quella di Gesù, punto d’arrivo di tutti i Vangeli. Gesù risorto è il, “primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18), “primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). Anche il loro corpo, come quello del Figlio, in forza dello Spirito vive già ora di gloria in gloria, trasfigurato nel Dio amore (2Cor 2,18). La risurrezione è la trasformazione dell’amore, gioia di appagamento che accresce il desiderio che a sua volta accresce l’appagamento, in un dinamismo senza fine. Tutto ciò che è corporeo esiste se ha un limite che lo definisce. La vita e l’amore per sé, se sono finiti, non esistono più. Come risorgerà il corpo? Lo intuiamo dai racconti di risurrezione di Gesù. Teniamo presente che le potenzialità della materia sono infinite. Il calcare nella roccia è un minerale; lo st

    1 h 10 min
  7. 20/04/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 20 aprile 2015

    Commento a Atti 26, 1-23Non fui disobbediente alla visione celeste È l’ultimo grande discorso di Paolo. Per la terza volta è narrata l’esperienza di Damasco. Vedi anche At 9, 1-19 e At 22, 3-16. L’apologia in cui l’accusato difende se stesso (vv. 1.2-24) diventa apologia della fede in Gesù e prova scritturistica del suo mistero, di cui Paolo è servitore e testimone. Siamo al culmine dell’opera di Luca che riassume gli aspetti fondamentali della storia della salvezza. In essa Paolo ha un ruolo particolare. La profezia di Simeone sul bambino Gesù come “luce per illuminare le genti” (Lc 2,29-32) si compie nel ministero di Paolo (At 26,17s). La prospettiva di salvezza universale predetta dai profeti fa da grande inclusione a tutta l’opera lucana, che si apre con la profezia di Simeone e si conclude con questa testimonianza di Paolo. L’ apologia di Paolo diventa un discorso missionario ai Giudei che mostra Gesù come colui che fu promesso da Mosè e dai profeti dei tempi antichi. Nei due racconti precedenti del fatto di Damasco Paolo è presentato rispettivamente come“vaso eletto” (9,15) e “testimone” ( 22,15). Qui invece è “profeta”, portavoce di Dio. Infatti nei vv. 16-18 si identifica ai profeti (cf Ez 2, 1-6; Ger 1, 8; Is 35, 5; 42, 7; 61, 1). Qui Paolo si rifà a loro e a Mosè per comprendere il grande mistero del Messia sofferente, primo dei risorti e luce di salvezza per tutti (26, 22.23). Siamo all’apice cristologico degli Atti. Il Cristo che ha conquistato lui, persecutore di cristiani, grazie alla sua testimonianza deve liberare dalla tenebra il popolo di Israele e i pagani (vv. 13.18.23). In questo terzo racconto dell’esperienza di Damasco il Signore stesso si fa vedere da Paolo e lo chiama alla sua missione universale. Pure lui, al pari degli apostoli - anche se dopo i quaranta giorni (At 1,3) e da ultimo - ha visto il Signore risorto in persona che l’ha direttamente chiamato ad essere suo servitore e testimone (v. 16). Paolo, membro della “corrente più rigorosa della nostra religione” (v. 5), rappresenta visibilmente ai suoi ascoltatori la fedeltà alla promessa di Dio che si è adempiuta in Gesù, quella promessa verso la quale i suoi avversari sono diventati disobbedienti (v. 19). Più che una difesa di Paolo, le sue parole sono una difesa della promessa di Dio che si è avverata in Gesù e in chi lo accoglie. Gesù e Paolo - il testimoniato e il suo testimone - sono i personaggi principali dell’opera lucana. Ma i due, pur distinti, sono oramai uno nell’unità d’amore. Paolo dice: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Paolo è l’apostolo-tipo attraverso del quale il Risorto porta a compimento la sua missione salvifica universale. Questo è il grande disegno di Dio sull’umanità, già annunciato dai profeti. Paolo è sempre stato fedele e obbediente alla parola. Prima dell’incontro di Damasco era fedele da fariseo (vv.4-8) - tanto zelante da perseguitare i cristiani (vv.9-11). Dopo l’incontro con col Cristo (vv. 12-18) divenne fedele alla voce celeste che l’ha costituito suo servitore e testimone per portare a tutti la salvezza d’Israele (vv. 19-23). Come si vede, lo zelo per Dio e la fedeltà a lui può portare a uccidere oppure a salvare l’uomo. Da qui la necessità del discernimento degli spiriti: “Voi non sapete di che spirito siete: il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini ma a salvarle” (Lc 9,55). Così dice Gesù agli zelanti Giacomo e Giovanni. Ogni spirito che uccide e perde l’uomo, è “diabolico”. Lo Spirito di Dio invece salva e dà vita. Il criterio di discernimento per riconoscere lo Spirito di Dio è “la carne” di Gesù, (cf. Gv 4,2), epifania dell’amore di Dio offerto ad ogni carne. Gesù è Figlio di Dio perché è Figlio dell’uomo che ama ogni uomo, giusto o peccatore, come figlio del Padre. L’uomo è l’unica immagine di Dio. Ciò che si fa all’uomo, lo si fa a Dio. Nessuno lo dimentichi, di qualunque religione sia o non sia. Chi si divide e condanna un uomo, non importa se più o meno in nome di Dio, ha uno spirito “diabolico e satanico” (= divisore e accusatore). L’incontro con il Vivente, che si identifica con ogni carne, ha fatto passare Paolo dall’amore della verità alla verità dell’amore. L’amore della verità uccide l’uomo in nome di Dio – di quel dio che in realtà è diabolico e satanico. Questo vale per ogni uomo, cristiano, mussulmano o ateo. L’unico culto vero a Dio, per Mosè e i Profeti come per ogni persona degna di tale nome, è l’amore del prossimo. E per “prossimo” si intende anche chi è accecato e uccide l’altro in nome di interessi diabolici travestiti o meno di religiosità. Non è il diavolo la scimmia di Dio? La verità dell’amore invece apre al rispetto di ogni uomo. Se l’amore della verità diventa sempre amore del potere, la verità dell’amore sprigiona in tutti il potere dell’amore. Paolo, come Gesù, suo Signore, è il maestro della verità dell’amore (cf 1Cor 13,1ss). DIVISIONE: a. vv. 1-3 introduzione b. vv. 4-8: Paolo zelante fariseo c. vv. 9-18: incontro con Gesù e sua chiamata alla missione tra i pagani d. vv. 19-23: “predica” ad Agrippa su Cristo primo tra i risorti, luce e vita per tutti

    1 h 14 min
  8. 13/04/2015

    Lectio degli Atti degli Apostoli di lunedì 13 aprile 2015

    Commento a Atti 25, 13-27Anch’io vorrei ascoltare l’uomo Comincia una lunga sezione (At 25,13-26,32) in cui Paolo, dopo aver testimoniato davanti al Sinedrio e ai governatori Felice e Festo, appare anche davanti all’ultimo re giudeo. Infatti il re Agrippa si trova in visita di “presentazione” a Festo. Questi gli espone il caso di Paolo. Il re dice:”Anch’io vorrei ascoltare l’uomo”. La scena richiama il processo di Gesù quando Pilato lo manda da Erode (Lc 23,6-12). Ma il racconto è più ampio (44 versetti contro 7) e articolato. Infatti, oltre l’irrisione di Festo (At 26, 24), appare sulla sua bocca il nome di Gesù e la sua risurrezione (At 25,19). Inoltre l’incontro tra Festo e re Agrippa introduce una nuova convocazione e apologia di Paolo che occuperà tutto il capitolo 26 degli Atti. In questo lungo racconto si compie quanto disse il Signore ad Anania circa Polo, “vaso eletto per portare il mio nome dinnanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (At 9, 15). Accade a lui quanto predisse Gesù ai discepoli prima della passione: “Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori a causa del mio nome” (Lc 21, 12s). L’esposizione di Felice ad Agrippa mette in risalto l’innocenza di Paolo e l’infondatezza delle accuse contro di lui come “ bubbone pestifero”, pericoloso sovvertitore dell’ordine pubblico. Nell’economia degli Atti il racconto serve, oltre che a sdoganare il cristianesimo come “religio licita”, a mostrarne la fondatezza. Ciò che è accaduto e narrato nel Vangelo e che che Paolo annuncia è noto a tutti, anche al re: “Non sono fatti accaduti in segreto” (At 26,26). L’ingresso in pompa magna dei grandi della regione, con il seguito di generali e nobili della città, manifesta l’importanza del cristianesimo: non è una setta clandestina, ma una “Via”nota e aperta a tutti, senza esclusioni di ceto, genere o razza. La grandiosa scenografia del processo diventa il palco adeguato alla testimonianza di Paolo, che a tutti porta l’annuncio di Gesù. Nei vv. 13-22 il governatore Festo presenta ad Agrippa e Berenice il caso di Paolo. È in breve la storia del suo processo, iniziato dal suo predecessore Felce due anni prima e continuato da lui. Le imputazioni criminose contro Paolo sono infondate. Non è un caso politico, come avrebbero voluto i suoi accusatori, per farlo eliminare dai romani. Si tratta di questioni religiose circa un certo Gesù, morto, che Paolo afferma essere vivo. Per questo Festo voleva rimandare il processo a Gerusalemme. Ma Paolo aveva rifiutato, perché lo volevano uccidere e, in quanto cittadino romano, si era appellato a Cesare. Nei vv. 23-27, trascorso un giorno dall’arrivo del re Agrippa, Festo inizia il processo a Paolo davanti a lui e tutte le autorità cittadine. Non si può presentarlo all’imperatore senza alcuna accusa. Per questo chiede agli astanti di esaminare il caso per vedere cosa possa scrivere a Cesare. È infatti assurdo inviargli un prigioniero da giudicare senza alcuna incriminazione contro di lui. Tema fondamentale del testo è sempre e ancora l’innocenza politica di Paolo e la rilevanza pubblica del messaggio cristiano che lui porta a tutti, compresi governati e re. DIVISIONE a. vv. 13-23: Festo presenta il caso di Paolo al re Agrippa b. vv. 24-27 : Festo presenta Paolo in tribunale davanti a un pubblico d’eccezione.

    1 h 13 min

Valutazioni e recensioni

4,2
su 5
17 valutazioni

Descrizione

Le lectio degli Atti degli Apostoli tenute da Silvano Fausti e dai suoi confratelli della Comunita di Villapizzone (Milano) il lunedi sera.L'icona è l'opera "Der Morgen am See" di Sieger Köder Eventuali ulteriori informazioni possono essere trovate su http://www.schwabenverlag-online.de/sk_vita.php

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