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Mamma a 40 anni - Di quando mi hanno parlato della Trisomia 21 Mamma a 40 anni

    • Infanzia e famiglia

Puntata 14 – Di quando mi hanno parlato della Trisomia 21

Oggi faccio un passo indietro. A quando ho fatto il test più o meno un anno fa e ho cominciato a dire in giro di essere in gravidanza a 39 anni suonati. Per certi versi, quello “interessante” si conferma e si mantiene uno stato di grazia, che ti porta di nuovo a farti certe fantasie delicate, sul futuro e sugli anni che verranno. Ogni nascita è un’occasione e un’opportunità per fare meglio. Per altri, appena varchi la soglia del tuo primo appuntamento ginecologico, sai già che i medici e il resto del circo ti parleranno con una certa insistenza di tutto quel che ruota intorno al mondo della diagnosi prenatale. 39 anni sono, a loro dire e con tutte le ragioni di questo mondo, il limite massimo oltre il quale ci si spinge a rischio e pericolo di avere un neonato o una neonata, e poi una persona, disabile a varie intensità.
Per quel che mi riguarda, è un pensiero che ho avuto fin da quando ho visto le famose lineette sul test di gravidanza, una sera dei primi di giugno. E ricordo con precisione quel gesto netto e categorico della mia ginecologa, nel compilare la cartella clinica con tutti i dati necessari: un bel cerchio a penna nera intorno alle cifre della mia età: 39.
Seguì la trafila delle raccomandazioni sulle indagini prenatali. Tanto lo sapeva già che non ero interessata a fare nessun test approfondito, amnio, villo o qualunque altra “centesi” potessi incontrare lungo la mia gravidanza. Mai fatto nulla del genere. Solo che i medici non demordono mica, purtroppo o per fortuna, non si sa. All’ecografia morfologica venne fuori che la piccola stava crescendo poco, molto poco, troppo poco. Che i suoi parametri erano compatibili con quelli della Trisomia 21. In definitiva, che con la mia età non ci sarebbe stato nulla di strano nell’aver concepito un bambino disabile. E poi le telefonate rapide e fumose con vari medici, una visita targata “urgente” con una genetista che mi ha spiegato tutto come ad una 12enne e che provato a convincermi a fare indagini prenatali di vario genere. Dovevo decidere in fretta quello che andava fatto, ché i tempi per un aborto erano molto molto stretti. Eventualmente, sarebbe stato possibile fare anche una mappa cromosomica extraospedaliera ad un prezzo comunque onesto. Le variabili di una malformazione genetica c’erano proprio tutte, anche la placenta che non maturava correttamente, le mie arterie uterine che non rispondevano a dovere, insomma… più chiaro di così.
Proprio mentre stavo in quell’ambulatorio ristrutturato da poco, i nodi in gola e l’umore in cantina, la genetista riceve una chiamata sul suo cellulare. Dialoghi brevi, monosillabi con il suo interlocutore. Dice “ah sì, quella signora di 42 anni, dimmi. Certo, capisco, Trisomia 21. Va bene, grazie, glielo riferisco.”
Ecco. Risultati in diretta, relativi ad un’altra coppia, in attesa in corridoio dopo il mio appuntamento. Uscendo da quella stanza, incrociandoli per un istante con i nostri sguardi sospesi, avrei voluto dire a quei due, venite dai, andiamo tutti a fare una girata insieme, andiamo a camminare, a vedere qualcosa di bello in centro, andiamo al mare, che un settembre così vale proprio la pena, almeno a prenderci un caffè. E invece nulla. Tutti ed ognuno chini a riflettere sulle proprie scelte, sulle proprie vie.
La crescita della mia Ortensia si è poi regolarizzata durante la gravidanza, monitorata mese dopo mese, e i molti pensieri che mi hanno fatto compagnia per tante settimane hanno trovato spazio in qualche angolo del mio cuore. Affiorano comunque, quando la osservo nel suo sviluppo fisico e cognitivo, immaginando anche quell’altra bambina, che in questa casa non è arrivata, ma che credo abiti poco lontano da qui, con quella coppia di poco più adulta di me.

Questo è Mamma a 40 anni, io sono Agnese, e ci sentiamo la prossima settimana.

Puntata 14 – Di quando mi hanno parlato della Trisomia 21

Oggi faccio un passo indietro. A quando ho fatto il test più o meno un anno fa e ho cominciato a dire in giro di essere in gravidanza a 39 anni suonati. Per certi versi, quello “interessante” si conferma e si mantiene uno stato di grazia, che ti porta di nuovo a farti certe fantasie delicate, sul futuro e sugli anni che verranno. Ogni nascita è un’occasione e un’opportunità per fare meglio. Per altri, appena varchi la soglia del tuo primo appuntamento ginecologico, sai già che i medici e il resto del circo ti parleranno con una certa insistenza di tutto quel che ruota intorno al mondo della diagnosi prenatale. 39 anni sono, a loro dire e con tutte le ragioni di questo mondo, il limite massimo oltre il quale ci si spinge a rischio e pericolo di avere un neonato o una neonata, e poi una persona, disabile a varie intensità.
Per quel che mi riguarda, è un pensiero che ho avuto fin da quando ho visto le famose lineette sul test di gravidanza, una sera dei primi di giugno. E ricordo con precisione quel gesto netto e categorico della mia ginecologa, nel compilare la cartella clinica con tutti i dati necessari: un bel cerchio a penna nera intorno alle cifre della mia età: 39.
Seguì la trafila delle raccomandazioni sulle indagini prenatali. Tanto lo sapeva già che non ero interessata a fare nessun test approfondito, amnio, villo o qualunque altra “centesi” potessi incontrare lungo la mia gravidanza. Mai fatto nulla del genere. Solo che i medici non demordono mica, purtroppo o per fortuna, non si sa. All’ecografia morfologica venne fuori che la piccola stava crescendo poco, molto poco, troppo poco. Che i suoi parametri erano compatibili con quelli della Trisomia 21. In definitiva, che con la mia età non ci sarebbe stato nulla di strano nell’aver concepito un bambino disabile. E poi le telefonate rapide e fumose con vari medici, una visita targata “urgente” con una genetista che mi ha spiegato tutto come ad una 12enne e che provato a convincermi a fare indagini prenatali di vario genere. Dovevo decidere in fretta quello che andava fatto, ché i tempi per un aborto erano molto molto stretti. Eventualmente, sarebbe stato possibile fare anche una mappa cromosomica extraospedaliera ad un prezzo comunque onesto. Le variabili di una malformazione genetica c’erano proprio tutte, anche la placenta che non maturava correttamente, le mie arterie uterine che non rispondevano a dovere, insomma… più chiaro di così.
Proprio mentre stavo in quell’ambulatorio ristrutturato da poco, i nodi in gola e l’umore in cantina, la genetista riceve una chiamata sul suo cellulare. Dialoghi brevi, monosillabi con il suo interlocutore. Dice “ah sì, quella signora di 42 anni, dimmi. Certo, capisco, Trisomia 21. Va bene, grazie, glielo riferisco.”
Ecco. Risultati in diretta, relativi ad un’altra coppia, in attesa in corridoio dopo il mio appuntamento. Uscendo da quella stanza, incrociandoli per un istante con i nostri sguardi sospesi, avrei voluto dire a quei due, venite dai, andiamo tutti a fare una girata insieme, andiamo a camminare, a vedere qualcosa di bello in centro, andiamo al mare, che un settembre così vale proprio la pena, almeno a prenderci un caffè. E invece nulla. Tutti ed ognuno chini a riflettere sulle proprie scelte, sulle proprie vie.
La crescita della mia Ortensia si è poi regolarizzata durante la gravidanza, monitorata mese dopo mese, e i molti pensieri che mi hanno fatto compagnia per tante settimane hanno trovato spazio in qualche angolo del mio cuore. Affiorano comunque, quando la osservo nel suo sviluppo fisico e cognitivo, immaginando anche quell’altra bambina, che in questa casa non è arrivata, ma che credo abiti poco lontano da qui, con quella coppia di poco più adulta di me.

Questo è Mamma a 40 anni, io sono Agnese, e ci sentiamo la prossima settimana.

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