Da Van Gogh a Kierkegaard. La chiesa di Auvers

Arte Svelata

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Vincent van Gogh (1853-1890) fu un pittore olandese, tra i più importanti del XIX secolo e di tutti i tempi. In pochi anni di attività, dipinse quasi novecento quadri e realizzato più di mille disegni. Con la sua arte fortemente espressiva, influenzò profondamente l’arte del Novecento. Fu sempre un uomo difficile, angosciato e come tale distruttivo per sé stesso e per gli altri. Un infelice che procurava infelicità.

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Non sorrideva mai. Era sempre trasandato, capelli rossi arruffati e barba incolta. Anche il suo comportamento era strano: stava a lungo zitto, poi iniziava a parlare e non la smetteva più.

Tutti lo consideravano bizzarro, ma per molti era proprio matto e così la gente lo evitava. Infatti, Vincent soffrì tantissimo di solitudine. Poco prima del Natale 1888, in preda a una crisi, Vincent si tagliò l’orecchio sinistro. Venne prima ricoverato presso l’ospedale di Arles, poi nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, dove dipinse capolavori intensi, tra cui La notte stellata. Nel 1890, si trasferì ad Auvers-sur-Oise, presso Parigi, per essere curato dal dottor Paul Gachet. Ma il suo equilibrio psichico era molto compromesso, la vita gli appariva come bloccata dal dolore. L’unica forma di consolazione rimase la pittura.

La chiesa di Auvers

Ad Auvers, appena un mese prima di morire, Van Gogh volle dipingere la piccola chiesa del paese, dedicata a Notre-Dame, un minuscolo edificio gotico del XII-XIII secolo. Leggiamo in una lettera indirizzata alla sorella Wilhelmina: «Ho un’immagine più grande della chiesa del villaggio, con effetto in cui la costruzione sembra essere viola contro un cielo di semplice blu scuro, cobalto puro; le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato.

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Sullo sfondo, alcune piante in fiore e sabbia con il riflesso rosa del sole. Ed ancora una volta è simile agli studi che ho fatto a Nuenen della vecchia torre del cimitero, solo probabilmente ora il colore è più espressivo, più sontuoso». Van Gogh aveva scelto, per rappresentare la chiesa, una veduta absidale. Come suo solito, aveva trasformato completamente ciò che si trovava davanti ai suoi occhi.

Un pieno di Cielo

Nel quadro di Vincent, intitolato La chiesa di Auvers, il sentiero in primo piano che si biforca così come il prato che circonda l’edificio sono diventati incerti e malfermi. Anche la chiesa presenta forme fluide e ondulate, con un effetto vagamente ipnotico. La terra si agita e in tal modo esprime l’agitazione interiore dell’artista. Il cielo invece, simbolo del divino, è calmo e sembra entrare nell’edificio e riempirlo totalmente; un Cielo che richiama chiaramente la fede di Vincent, l’unica àncora che gli restava per contrastare la perdita del dominio di sé.

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Sappiamo che in Van Gogh il pessimismo esistenziale, oramai radicato in modo profondo e come tale inestirpabile, conviveva a fatica con una fede coltivata negli anni, contrastata, vacillante ma mai del tutto ricusata. Una fede (in Dio, innanzi tutto, ma anche nella vita) che non sarebbe stata sufficiente a salvarlo ma che fino all’ultimo, come dimostra questo dipinto, accompagnò la sua faticosa esistenza.

L’esistenzialismo di Kierkegaard

Questa particolare posizione esistenziale richiama il pensiero del filosofo e teologo ottocentesco Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855), considerato da molti studiosi il precursore dell’esistenzialismo. Profondamente segnato da alcuni lutti familiari e soprattutto dalla rigidissima educazione impartitagli dagli anziani genitori, Kierkegaard fu, come Vincent, un uomo profondamente introspettivo e malinconico. «Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere»: così racconta il filosofo, che giunse a credersi oggetto di una maledizione divina, per una qualche “grave colpa” commessa nel passato da suo padre.

Secondo Kierkegaard, la dimensione esistenziale dell’uomo è segnata dalla disperazione, dall’angoscia e dal senso di inadeguatezza. La disperazione nasce da un rapporto serio dell’uomo con sé stesso, l’angoscia da un rapporto serio dell’uomo con il mondo, il senso di inadeguatezza dall’impossibilità dell’uomo di essere autosufficiente senza Dio. Infatti, per Kierkegaard (che restò sempre, fondamentalmente, un pensatore cristiano), l’unico esito positivo che angoscia e disperazione possono avere è la fede, intesa come fiducia assoluta e incondizionata nella chiamata divina.

Una possibilità positiva

Dio costituisce l’unica possibilità infinitamente positiva. L’uomo che ha fede riconosce la sua insufficienza ma non la vive come un peso perché accetta la sua dipendenza da Dio. Chi crede sa che non è suo compito compiere il possibile: egli non si determina da sé. Davanti a tante circostanze della vita, anche faticose e dolorose, esiste quindi una possibilità di riscatto. Kierkegaard la identifica con il divino, con la fede in Dio, che non cancella l’angoscia ma alimenta la speranza.

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È come se l’angoscia e la malinconia, che connotano per il filosofo la condizione umana, portassero con sé la promessa di un Bene maggiore: una domanda di senso che non può non lasciarci indifferenti e ci spinge a cercare una risposta. Certo, l’affidamento totale a Dio (come quello che scelse di vivere Abramo, nell’Antico Testamento) è paradossale e scandaloso, è una scelta che non può essere giustificata razionalmente in alcun modo e che rappresenta un rischio assoluto. Per tutta la vita Vincent Van Gogh accettò questo rischio: poi, cedette allo sconforto e rinunciò.

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