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Daniel Abbruzzese - Terzo paesaggio e città: dal trauma al sogno One - Architettura & Design

    • Design

Da qualche decennio la pianificazione dello spazio pare trovarsi in una fase di crisi, che investe in primo luogo l’attività dell’architetto stesso (come sintetizzato efficacemente da Cino Zucchi nel suo recente podcast).

È soprattutto nel contesto dello spazio urbano che viene alla luce questa indecisione: da una parte l’azione pare limitata alla gestione degli spazi in base ad attribuzioni funzionali e allo sviluppo demografico, dall’altra si notano interventi audaci, che intenderebbero, almeno inconsapevolmente, agire nella dimensione simbolica – dimensione che non può che riferirsi alle alterità assolute di storia e della natura. La città è insomma un fardello di esperienze e traumi vissuti da altri ed uno spazio opposto alla “natura”, un’astrazione a cui, si presume, l’essere umano è stato un tempo affine.

Al tempo stesso, all’uomo urbanizzato è comunque ben presente quanto la città sia innanzitutto metafora del suo Dasein. Non a caso, nel momento in cui l’essere umano si definisce principalmente come ente biologico, le metafore più ricorrenti riferite alla città sono di carattere biologico: un organismo che cresce in maniera tentacolare o radiale, innervato come un vegetale, che fagocita lo spazio circostante, afflitto da patologie simili a quelle del sistema nervoso o dell’apparato circolatorio. “Se proprio la città dev’essere messa in relazione con la fisiologia, più che a ogni altra cosa essa somiglia a un sogno”, così Joseph Rykwert nel suo saggio fondamentale L’idea di città, pubblicato da Adelphi nel 1976. Per quanto questa metafora possa sembrare forzata, essa ci invita ad un confronto con ciò che lo spazio urbano rappresenta storicamente e, soprattutto, simbolicamente. Il sogno ci ripresenta infatti la realtà cosciente in un ordine simbolico, in cui le aspirazioni sono più chiaramente riconoscibili. Non solo: il sogno è contiguo al trauma.

E, non a caso, la narrazione della nascita di ogni città antica si apre con un momento traumatico. Ne abbiamo un’immagine perfetta nel fratricidio che prelude alla nascita di Roma – e che ricorda da vicino l’assassinio di Abele da parte di Caino, ovvero colui che, prendendo possesso (dalla radice knh), decreta la fine di un’umanità dedita all’agricoltura e all’allevamento. Tuttavia, non è tanto l’avvicendamento di due società a dare origine alle leggende di una fondazione sanguinosa, quanto l’idea che il costruire sia una forzatura rispetto all’ordine naturale. Il sacrificio iniziale è dunque pensato come riparazione di questa rottura, così come la sua mitizzazione serve a renderlo presente alla coscienza, mondato dal suo carattere inquietante. Allo stesso modo, i richiami ad una rottura da ricomporre sono parte integrante dei rituali inaugurali e periodici che segnano l’esistenza della città nell’antichità.

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Da qualche decennio la pianificazione dello spazio pare trovarsi in una fase di crisi, che investe in primo luogo l’attività dell’architetto stesso (come sintetizzato efficacemente da Cino Zucchi nel suo recente podcast).

È soprattutto nel contesto dello spazio urbano che viene alla luce questa indecisione: da una parte l’azione pare limitata alla gestione degli spazi in base ad attribuzioni funzionali e allo sviluppo demografico, dall’altra si notano interventi audaci, che intenderebbero, almeno inconsapevolmente, agire nella dimensione simbolica – dimensione che non può che riferirsi alle alterità assolute di storia e della natura. La città è insomma un fardello di esperienze e traumi vissuti da altri ed uno spazio opposto alla “natura”, un’astrazione a cui, si presume, l’essere umano è stato un tempo affine.

Al tempo stesso, all’uomo urbanizzato è comunque ben presente quanto la città sia innanzitutto metafora del suo Dasein. Non a caso, nel momento in cui l’essere umano si definisce principalmente come ente biologico, le metafore più ricorrenti riferite alla città sono di carattere biologico: un organismo che cresce in maniera tentacolare o radiale, innervato come un vegetale, che fagocita lo spazio circostante, afflitto da patologie simili a quelle del sistema nervoso o dell’apparato circolatorio. “Se proprio la città dev’essere messa in relazione con la fisiologia, più che a ogni altra cosa essa somiglia a un sogno”, così Joseph Rykwert nel suo saggio fondamentale L’idea di città, pubblicato da Adelphi nel 1976. Per quanto questa metafora possa sembrare forzata, essa ci invita ad un confronto con ciò che lo spazio urbano rappresenta storicamente e, soprattutto, simbolicamente. Il sogno ci ripresenta infatti la realtà cosciente in un ordine simbolico, in cui le aspirazioni sono più chiaramente riconoscibili. Non solo: il sogno è contiguo al trauma.

E, non a caso, la narrazione della nascita di ogni città antica si apre con un momento traumatico. Ne abbiamo un’immagine perfetta nel fratricidio che prelude alla nascita di Roma – e che ricorda da vicino l’assassinio di Abele da parte di Caino, ovvero colui che, prendendo possesso (dalla radice knh), decreta la fine di un’umanità dedita all’agricoltura e all’allevamento. Tuttavia, non è tanto l’avvicendamento di due società a dare origine alle leggende di una fondazione sanguinosa, quanto l’idea che il costruire sia una forzatura rispetto all’ordine naturale. Il sacrificio iniziale è dunque pensato come riparazione di questa rottura, così come la sua mitizzazione serve a renderlo presente alla coscienza, mondato dal suo carattere inquietante. Allo stesso modo, i richiami ad una rottura da ricomporre sono parte integrante dei rituali inaugurali e periodici che segnano l’esistenza della città nell’antichità.

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