Martini e Petrarca

Arte Svelata

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A Siena, già dalla metà del XIII secolo, la prosperità economica, l’apertura verso i grandi mercati d’Oriente e d’Occidente, nonché la presenza di Nicola e Giovanni Pisano nei cantieri del Duomo avevano avviato fin dal Duecento la fioritura di una civiltà artistica che aveva trovato il suo più autorevole protagonista nel pittore Guido da Siena. Fu tuttavia nel Trecento, con Duccio, ideale antagonista di Giotto, che la pittura senese si propose come polo alternativo a quello fiorentino; il grande maestro e i suoi discepoli (soprattutto Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti), pittori di livello eccelso, fondarono in tal modo una sorta di “scuola” i cui caratteri distintivi, felicemente trapiantati in Europa, dalla Francia alla Sicilia, si mantennero pressoché invariati sino al Quattrocento inoltrato, opponendosi di fatto, sia pure senza successo, alla diffusione del nuovo linguaggio rinascimentale. Martini e Petrarca

Martini a Siena

Non è rimasto nulla della prima produzione di Simone Martini (1284-1344), per cui è difficile ricostruire la sua formazione; la frequentazione della bottega di Duccio, tuttavia, non viene messa in discussione. La prima opera certa dell’artista è la Maestà commissionatagli dal governo dei Nove, signori di Siena, e affrescata all’interno del Palazzo Pubblico fra il 1313 e il 1315, nonché ritoccata dallo stesso autore nel 1321. Il grande dipinto occupa tutta la parete d’onore della maggior sala, che un tempo si chiamava Sala del Consiglio o della Balestra e poi nota come Sala del Mappamondo.

Simone, all’epoca, era un artista trentenne già maturo, non condizionato dai legami con la tradizione bizantina e proiettato verso un linguaggio internazionale. Nonostante, o forse proprio in forza della sua adesione al Gotico europeo, appariva desideroso di competere con Giotto. La scelta da parte del governo senese di affidare la realizzazione di quest’opera proprio a lui, con Duccio ancora in vita, può spiegarsi solo ipotizzando che i maggiorenti della città avessero considerato il linguaggio del discepolo più aggiornato e moderno di quello del maestro. Nell’opera del Martini domina, infatti, una sublime eleganza, che avvicina l’opera al gusto d’Oltralpe, soprattutto francese. Martini e Petrarca

Simone conferì alla sua Maestà lo splendore cromatico di un’opera di oreficeria. Egli arricchì la superficie pittorica con vetri colorati, parti metalliche dipinte, foglie d’oro zecchino, rilievi a stucco, inserti di carta, che solo in parte si sono conservati. A un primo sguardo, le parti più antiche dell’affresco evidenziano la forte influenza della lezione duccesca. Nel contempo, un maggiore respiro spaziale testimonia che Martini aveva già elaborato uno stile del tutto personale, che contemplava anche una certa affinità con l’arte di Giotto.

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Ad Assisi

Nel 1312, il cardinale Gentile Partino da Montefiore, si recò a Siena dove incontrò Martini. In tale occasione, lo incaricò di affrescare la Cappella di San Martino, la prima a sinistra nella Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi, da lui voluta e fatta costruire. Il cardinale non fece in tempo a vedere i lavori ultimati perché morì prima, anche se l’artista portò ugualmente l’opera a termine. La decorazione della cappella avvenne in tre fasi, tra il 1313 e il 1318. In questo lasso di tempo, infatti, Simone fece la spola tra Assisi, Siena (dove stava dipingendo la Maestà) e Napoli, per seguire contemporaneamente diverse commissioni. Martini e Petrarca

Il ciclo di dieci affreschi racconta le Storie di san Martino. L’influenza di Giotto è assai evidente nel realismo delle architetture e nel gioco chiaroscurale delle luci e delle ombre, che tiene conto della posizione delle finestre. Tuttavia, Simone scelse di presentare il tema sacro attraverso un’interpretazione profana e cortese, cogliendo un’occasione privilegiata per esprimere ideali di tipo cavalleresco.

Nell’episodio con San Martino ordinato cavaliere, per esempio, il santo è circondato da musici, scudieri, servitori con il falcone sul pugno, tutti vestiti con raffinati abiti trecenteschi, nobilitati nei volti ed eleganti nei movimenti. Simone, come Duccio, privilegia l’uso della linea ed esalta la funzione del colore. Non sono, tuttavia, i caratteri stilistici ad accomunare maestro e discepolo. I due artisti appaiono legati, piuttosto, da una profonda comunanza di vedute: le loro opere mostrano la stessa tendenza all’evasione, la voglia di superare la realtà quotidiana, l’aspirazione a rifugiarsi in un mondo di fantasia. Martini e Petrarca

Il confronto con Giotto

Interessante anche il confronto con Giotto, che proprio in quel periodo stava affrescando, con la sua bottega, il transetto destro della Basilica Inferiore. Se la pittura del fiorentino era intrisa di valori tipici della nascente borghesia cittadina, se cantava l’evidenza dei sentimenti, delle emozioni, dei turbamenti dell’uomo nuovo, l’arte di Simone, così tesa all’esaltazione della bella apparenza, era invece l’espressione di una società ricca, sfarzosa e aristocratica, erede del feudalesimo, sostanzialmente in decadenza ma proprio per questo circonfusa da un’aura d’irraggiungibile superiorità. Giotto aveva donato alla figura umana corpo e sostanza, Simone la rivestì di abiti preziosi e la proiettò in un mondo di fiaba. Nella sua pittura non potremo mai cogliere il sentimento della realtà storica; i suoi eroi non sono tali per le azioni che compiono ma in quanto eletti, per una loro naturale e innata superiorità o per grazia divina.

A Napoli

Questa peculiarità attraversa tutta la produzione artistica di Simone Martini; ne rintracciamo un valido esempio nella pala d’altare con San Ludovico di Tolosa, realizzata nel 1317 a Napoli in occasione della canonizzazione di Ludovico d’Angiò, in cui ritroviamo una brillante stesura cromatica resa ancora più luminosa dall’ampio fondo oro. In quest’opera l’autore ha trasformato, per mezzo di pose e gestualità regali, un tema religioso in chiave laica e politica.

Ludovico (1274-1297), primogenito del sovrano Carlo d’Angiò, era destinato al trono del regno di Napoli, ma vi rinunciò per farsi francescano. Una tavola celebrativa della monarchia angioina non poteva tuttavia esaltare il tema dell’umiltà. Così, Ludovico incorona il fratello Roberto, subentrato al trono, ed è a sua volta incoronato dagli angeli; entrambi i personaggi sono immersi in un abbacinante fondo oro che tende a dissolvere le figure, smaterializzarle, privarle di peso, sospenderle in una dimensione fuori dallo spazio e dal tempo.

Dalla Toscana ad Avignone

Tornato in Toscana intorno al 1318, Simone si dedicò alla produzione di polittici. Nel 1333, per l’Altare di Sant’Ansano, nel Duomo di Siena, Martini dipinse l’Annunciazione, oggi agli Uffizi di Firenze. È uno dei più celebri capolavori del maestro e senza dubbio una delle sue prove migliori. La cornice, scandita da cinque archi a sesto acuto, accoglie nella parte centrale le figure della Vergine e dell’arcangelo Gabriele annunciante e alle due estremità le immagini dei santi Ansano e Massima.

Quest’ultima è dipinta da Lippo Memmi, il più rappresentativo seguace di Simone Martini, nonché suo cognato e collaboratore; a lui si deve anche la decorazione della cornice. La calibratissima composizione di Martini si basa sull’eleganza aristocratica e irreale dei gesti, sulla preziosità dei colori, sull’uso ricercato della linea curva e sinuosa, con la quale l’artista ricava i profili delle figure.

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Fra il 1335 e il 1336, Simone partì per Avignone, dove entrò a far parte della corte di Papa Benedetto XII. Nella città francese dipinse e firmò il Polittico Orsini, un piccolo altarolo portatile, dotato di quattro scomparti (dipinti fronte-retro), oggi smembrato e distribuito per vari musei. I temi sono Storie di Maria e Storie della Passione. Fedele al suo stile aristocratico, Simone vi orchestrò scene vivacemente espressive con personaggi variamente atteggiati.

Tra le altre tavole ad uso privato dipinte da Martini ad Avignone, spicca il Ritorno di Gesù dal Tempio, in cui Giuseppe e Maria sono mostrati adirati con il ragazzo. Giuseppe, che gli appoggia una mano sulla spalla, lo guarda con espressione severa, indicandogli la madre, cu

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