Arte Svelata

Arte Svelata
Arte Svelata

Un luogo d'incontro per chi ama l’arte e vuole scoprirne la storia e i segreti.

  1. 19 FEB

    La Natura morta nel Seicento. Prima parte

    Versione audio: Nell’arte figurativa, si definisce Natura morta quel genere artistico che prevede la raffigurazione di fiori, frutta, pesci, cacciagione o vari oggetti d’uso, presentati come soggetti autonomi. L’origine della Natura morta è molto antica. Concepiti come rappresentazioni autonome o inseriti in contesti narrativi più complessi, fiori, frutta e oggetti sono presenti, in pittura, già nell’arte egizia e mesopotamica e poi in quella greca e romana. Anche nell’arte bizantina e medievale occidentale, le scene bibliche e le storie dei santi offrono occasioni per raffigurare stoviglie e vivande sulle tavole, libri, strumenti per la scrittura. Fiori e frutti sono adottati come simboli di Maria e di Cristo e accompagnano le loro figure. Nei dipinti fiamminghi del XIV secolo, che ricostruiscono analiticamente interni e arredi, e anche in certi esempi quattrocenteschi di pittura italiana, vedi il Cenacolo di Leonardo a Milano, si possono riconoscere i diretti antecedenti della Natura morta. In qualche modo, sono già di fatto Nature morte i versi, cioè le parti posteriori, di certi ritratti fiamminghi e tedeschi, con la rappresentazione autonoma di oggetti. Il Vaso di fiori di Hans Memling, lato B del Ritratto di giovane uomo che prega del 1485, costituisce un esempio emblematico. Anche veri e propri trompe-l’oeil che si diffondono nel primo Rinascimento in dipinti, miniature e tarsie costituiscono un antecedente di questo genere in Italia: pensiamo alle tarsie dello Studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino, realizzate attorno al 1476. Il primo esempio italiano di Natura morta inteso come genere pittorico autonomo è la tavola (forse sportello di un armadio) con una pernice, guanti di ferro e un dardo di balestra, del veneziano Jacopo de’ Barbari, firmata e datata 1504. Un genere minore Il termine Natura morta è seicentesco e comparve per la prima volta in alcuni inventari di quadri olandesi di metà XVII secolo. Qui leggiamo di Stilleven, parola poi tradotta nel tedesco Stilleben e nell’inglese Still life (traducibile letteralmente con “vita immobile”): tutte espressioni che indicano il carattere fermo dei soggetti illustrati, in contrapposizione alle immagini con figure umane dove si voleva cogliere il senso della vita, del movimento, più o meno trattenuto, della vivacità intellettuale, dell’ardore sentimentale ed emotivo. Le dizioni Nature morte e Natura morta sono invece tipiche dei paesi latini. A Parigi, sempre nel XVII secolo, sotto la guida del pittore Charles Le Brun (1619-1690), massimo esponente della cultura pittorica e decorativa dell’età di Luigi XIV, furono ordinati gerarchicamente tutti i generi pittorici allora prodotti. Quello cui i francesi riconobbero maggiore importanza fu ovviamente il genere “di storia” (biblica, mitologica e relativa alle gesta di uomini famosi); seguivano il ritratto, la pittura di paesaggio, la pittura di animali e, per ultimo, proprio quello della Natura morta, considerato con disprezzo dall’Accademia perché si limitava alla rappresentazione di fiori, cibarie e oggetti. Gli acquirenti di Nature morte furono normalmente borghesi, che amavano con queste opere decorare le sale da pranzo delle proprie case o delle ville di campagna. Le prime nature morte Se il Seicento è considerato il secolo della Natura morta, l’uso di introdurre nei quadri alcune immagini di oggetti tratti dal vero fa parte di una lunga tradizione. Nella seconda metà del Cinquecento, però, il diffuso interesse per gli studi naturalistici aveva spinto alcuni artisti a produrre dipinti che destinavano gran parte della composizione ai fiori, alla frutta o alle tavole imbandite. Nelle Fiandre, per esempio, le scene evangeliche furono talvolta relegate in secondo piano per lasciare spazio a descrizioni di mercati o di interni di cucina. Negli ultimi decenni del secolo, il nuovo filone cominciò ad incontrare il favore del pubblico: così, fiori, frutta, ortaggi,

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  2. 18 FEB

    La Valle dei Templi di Agrigento

    Versione audio: La città greca di Akràgas fu fondata in Sicilia dagli abitanti della vicina Gela nel 581 a.C. e divenne presto uno dei centri urbani più importanti e prosperi del mondo antico. Fu poi chiamata Agrigento dai Romani. La Valle dei Templi, edificata nel V secolo a.C., occupava il margine sud della città. Non era quindi l’Acropoli, che invece si trovava più a monte. Il nucleo originario, quello di età greca, comprendeva dieci templi, tre santuari e due piazze; in Età romana furono poi edificati alcune necropoli, un quartiere residenziale e una sala del consiglio cittadino. Tra i templi più importanti si distinguono il Tempio della Concordia (quasi perfettamente conservato), il Tempio di Giunone, il Tempio di Eracle e il Tempio di Zeus Olimpio (ridotti a ruderi).  Con i suoi 1300 ettari di estensione, la Valle dei Templi è uno dei Parchi archeologici più vasti del mondo, oltre che uno dei più famosi. Dal 1997, è diventata patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. Tempio di Demetra/Chiesa di San Biagio La visita del Parco archeologico inizia dalla cima della Rupe Atenea dove, ci dice lo storico greco antico Polibio, si trovava un Santuario di Zeus Atabyrios e di Athena Lindia. L’antico Tempio di Demetra, costruito fra il 480 e il 470 a.C., è stato inglobato nella chiesetta medievale di San Biagio. Era un edificio privo del colonnato esterno e costituito da una semplice cella, preceduta da un pronaos con due colonne. Della struttura originaria si conservano il basamento (crepidoma), ancora in parte visibile, i muri esterni della cella e, all’interno, quelli divisori tra cella e pronaos. Tempio di Giunone Scendendo lungo la Via Panoramica dei Templi, s’incontra il cosiddetto Tempio di Hera o di Giunone (Tempio D), in realtà dedicato ad Atena, come suggeriscono gli studi più recenti. Fu edificato a metà del V secolo a.C., intorno al 460-450 a.C. Ha un crepidoma di 4 gradoni. È di ordine dorico, periptero esastilo, con una peristasi di 6 x 13 colonne, a imitazione del Tempio della Concordia con cui condivide le dimensioni generali e alcune singole misure. Le colonne, alte 6 metri e 44 centimetri, sono costituite da 4 rocchi ciascuna. Il nàos, oggi perduto, era privo di colonnato interno, doppiamente in antis e dotato di prònaos e opistòdomos. L’edificio, come quasi tutti i templi agrigentini, venne distrutto dai cristiani per ricavarne materiale da costruzione. È quindi ridotto allo stato di rudere. Davanti al tempio, si trovano ancora i resti dell’ara sacrificale. Tempio della Concordia Il Tempio della Concordia è un tempio dorico periptero di età classica, edificato intorno al 430 a.C. Costruito con un calcare conchiglifero locale, che gli dona una suggestiva tinta dorata, è considerato, per il suo stato di conservazione, uno degli edifici sacri più belli dell’antichità. Non si sa a chi fosse dedicato; il nome «Tempio della Concordia» risale al XVI secolo ed è frutto di una interpretazione fantasiosa delle fonti. Intorno al 590-597 d.C. fu trasformato in basilica cristiana e dedicato ai santi Pietro e Paolo. A quell’epoca risale l’apertura di alcuni archi nelle pareti della cella (6 per lato). Rimase una chiesa fino al 1790 circa: circostanza che ha favorito il mantenimento di un buono stato di conservazione. Il tempio si innalza su un basamento (crepidòma) formato da quattro gradoni. La peristasi che circonda il naòs è di 6 x 13 colonne. Il tempio è quindi esàstilo. Sullo stilòbate del crepidòma, ossia il gradino superiore, si appoggiano direttamente i fusti delle colonne, senza base. Ogni colonna, alta 6,67 metri, ha il fusto scanalato con 20 scanalature. L’entasi del fusto si trova verso i 2/3 dell’altezza. La colonna è solo lievemente rastremata; essendo il tempio del V secolo a.C., il suo fusto è quasi cilindrico. L’echino del capitello, poco sporgente, è simile a una tazza. La trabeazione, costituita da architrave, fregio e cornice,

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  3. 17 FEB

    Clarice Cliff e gli oggetti dell’Art Déco

    Versione audio: L’Esposizione Internazionale di Parigi del 1900 si era dimostrata poco aperta alla celebrazione di uno dei miti essenziali del XX secolo: l’arte decorativa. La produzione art nouveau, dai complementi d’arredo all’architettura, aveva trovato uno spazio espositivo molto limitato. Una ripresa di interesse nei confronti delle arti applicate, da parte di pubblico e critica, si ebbe grazie ad una iniziativa italiana: nel 1902, Torino organizzò la prima edizione di una Esposizione Internazionale delle Arti Decorative Moderne. L’esperienza si sarebbe ripetuta nella capitale francese nel 1907, se una serie di circostanze avverse, non ultima la tensione politica tra gli stati che avrebbe condotto allo scoppio della guerra, non avesse bloccato l’iniziativa. Solo nel 1925, si riuscì ad organizzare a Parigi l’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e industriali moderne, da cui fu desunto il nome per il fenomeno che seguì all’Art Nouveau e che segnò il gusto europeo e americano del ventennio successivo: l’Art Déco. Con questo termine, o con quello ugualmente diffuso di Stile 1925, si classificano oggetti di design, motivi decorativi, lavori di grafica e perfino alcune opere di pittura, scultura e architettura realizzate in Europa e negli Stati Uniti fra il 1915 e il 1940. Lalique L’arte del vetro ebbe una notevole importanza per l’affermazione dell’Art Déco. Gli architetti attribuirono sempre a questo materiale un ruolo all’interno dei loro progetti e le grandi vetrate déco, che arricchiscono gli edifici realizzati negli anni Venti e Trenta, costituiscono ancora oggi una testimonianza quanto mai significativa di questo stile. In Europa, l’artista del vetro più famoso ed influente fu il francese René Lalique (1860-1945), già protagonista indiscusso della precedente Art Nouveau. Lalique aveva iniziato la sua carriera come orafo, conquistando uno straordinario successo internazionale con i suoi magnifici gioielli. A partire dagli anni Venti, la sua ditta produsse centinaia di modelli di boccette di profumo, scatole, vasi, orologi e ancora lampade, cornici per fotografie e servizi da tavola: pezzi, in vetro lavorato e talvolta colorato, caratterizzati per la loro luminosa opalescenza. Lalique realizzò anche monumentali complementi per l’architettura: ricordiamo solo i pannelli con figure per i più grandi hotel inglesi e americani. Il successo incontrastato di questo artista incoraggiò molte altre vetrerie ad imitare la sua produzione ma la tecnica segreta e impareggiabile di Lalique non fu mai eguagliata. I fratelli Daum Tra gli opifici più rinomati dell’epoca, è da ricordare anche la celebre industria francese dei fratelli Daum, che aveva prodotto vetri art nouveau dal 1880 al 1900. I loro oggetti déco in vetro inciso o porcellana, realizzati soprattutto negli anni Trenta, si caratterizzarono per il frequente ricorso a motivi floreali fortemente stilizzati e a forme decorative geometriche, soprattutto linee rette e forme circolari combinate, in modo da creare composizioni astratte dove potevano inserirsi frutti, motivi floreali o paesaggi stilizzati. La forma più comune di vasi, tazzine e teiere era piuttosto semplice, priva di elementi superflui; talvolta invece, questi oggetti assumevano forme molto irregolari, senza dubbio originali ma, nel complesso, poco funzionali. Hoffmann e Gio Ponti Hoffmann, grande protagonista dell’Art Nouveau austriaca, continuò la sua produzione di oggetti anche durante la stagione Art Déco. Le scanalature e le bande verticali delle sue tazze e dei suoi vasi costituirono uno dei motivi decorativi più diffusi di questo stile. L’architetto italiano Gio Ponti (1891-1979) è considerato tra le figure più rappresentative nel settore della produzione di ceramica nel periodo Art Déco. Direttore della ditta di porcellane e ceramiche Richard Ginori dal 1923, ideò una serie di oggetti originali per forma e decoro.

    7 min
  4. 18/10/2024

    Da Van Gogh a Kierkegaard. La chiesa di Auvers

    Versione audio: Vincent van Gogh (1853-1890) fu un pittore olandese, tra i più importanti del XIX secolo e di tutti i tempi. In pochi anni di attività, dipinse quasi novecento quadri e realizzato più di mille disegni. Con la sua arte fortemente espressiva, influenzò profondamente l’arte del Novecento. Fu sempre un uomo difficile, angosciato e come tale distruttivo per sé stesso e per gli altri. Un infelice che procurava infelicità. Non sorrideva mai. Era sempre trasandato, capelli rossi arruffati e barba incolta. Anche il suo comportamento era strano: stava a lungo zitto, poi iniziava a parlare e non la smetteva più. Tutti lo consideravano bizzarro, ma per molti era proprio matto e così la gente lo evitava. Infatti, Vincent soffrì tantissimo di solitudine. Poco prima del Natale 1888, in preda a una crisi, Vincent si tagliò l’orecchio sinistro. Venne prima ricoverato presso l’ospedale di Arles, poi nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, dove dipinse capolavori intensi, tra cui La notte stellata. Nel 1890, si trasferì ad Auvers-sur-Oise, presso Parigi, per essere curato dal dottor Paul Gachet. Ma il suo equilibrio psichico era molto compromesso, la vita gli appariva come bloccata dal dolore. L’unica forma di consolazione rimase la pittura. La chiesa di Auvers Ad Auvers, appena un mese prima di morire, Van Gogh volle dipingere la piccola chiesa del paese, dedicata a Notre-Dame, un minuscolo edificio gotico del XII-XIII secolo. Leggiamo in una lettera indirizzata alla sorella Wilhelmina: «Ho un’immagine più grande della chiesa del villaggio, con effetto in cui la costruzione sembra essere viola contro un cielo di semplice blu scuro, cobalto puro; le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato. Sullo sfondo, alcune piante in fiore e sabbia con il riflesso rosa del sole. Ed ancora una volta è simile agli studi che ho fatto a Nuenen della vecchia torre del cimitero, solo probabilmente ora il colore è più espressivo, più sontuoso». Van Gogh aveva scelto, per rappresentare la chiesa, una veduta absidale. Come suo solito, aveva trasformato completamente ciò che si trovava davanti ai suoi occhi. Un pieno di Cielo Nel quadro di Vincent, intitolato La chiesa di Auvers, il sentiero in primo piano che si biforca così come il prato che circonda l’edificio sono diventati incerti e malfermi. Anche la chiesa presenta forme fluide e ondulate, con un effetto vagamente ipnotico. La terra si agita e in tal modo esprime l’agitazione interiore dell’artista. Il cielo invece, simbolo del divino, è calmo e sembra entrare nell’edificio e riempirlo totalmente; un Cielo che richiama chiaramente la fede di Vincent, l’unica àncora che gli restava per contrastare la perdita del dominio di sé. Sappiamo che in Van Gogh il pessimismo esistenziale, oramai radicato in modo profondo e come tale inestirpabile, conviveva a fatica con una fede coltivata negli anni, contrastata, vacillante ma mai del tutto ricusata. Una fede (in Dio, innanzi tutto, ma anche nella vita) che non sarebbe stata sufficiente a salvarlo ma che fino all’ultimo, come dimostra questo dipinto, accompagnò la sua faticosa esistenza. L’esistenzialismo di Kierkegaard Questa particolare posizione esistenziale richiama il pensiero del filosofo e teologo ottocentesco Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855), considerato da molti studiosi il precursore dell’esistenzialismo. Profondamente segnato da alcuni lutti familiari e soprattutto dalla rigidissima educazione impartitagli dagli anziani genitori, Kierkegaard fu, come Vincent, un uomo profondamente introspettivo e malinconico. «Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere»: così racconta il filosofo, che giunse a credersi oggetto di una maledizione divina,

    6 min
  5. 17/10/2024

    L’architettura micenea

    Versione audio: Verso l’inizio del secondo millennio a.C., gli Achei si stabilirono nel Peloponneso, una regione della penisola greca; qui fondarono alcuni importanti centri urbani: Pilo, Argo, Tebe, Atene, Tirinto e Micene, città, quest’ultima, da cui prese il nome l’intera civiltà. Ogni città micenea era dotata di un palazzo fortificato, dove risiedevano il re e alcuni guerrieri. I Micenei affermarono la loro potenza intorno al 1450 a.C., dopo aver occupato l’isola di Creta e distrutto i suoi gloriosi palazzi. Da quel momento, furono i Micenei e non più i Cretesi a dominare sul Mediterraneo. L’architettura micenea Attorno al 1250 a.C., i re del Peloponneso, cui la tradizione ha dato un nome, Agamennone e Menelao, strinsero alleanza per una comune spedizione contro Troia, ricca città della costa anatolica che controllava gli accessi al Mar Nero. La difficile conquista e la distruzione di Troia, cantate nell’Iliade e nell’Odissea da Omero, poeta epico greco dell’VIII secolo a.C., furono pagate a caro prezzo dai Micenei: pochi decenni dopo, infatti, ebbe inizio il loro declino, lento ma progressivo. I Micenei subirono infine l’invasione dei Dori, un popolo greco giunto da Nord. Nel 1100 a.C. la loro civiltà fu cancellata ed ebbe inizio la cosiddetta “età oscura” o Medioevo ellenico. Mura possenti L’immagine tradizionale che la storia ci ha tramandato dei Micenei è quella di un popolo guerriero e aggressivo. In effetti, l’architettura micenea riflette il carattere di una civiltà chiusa e rigidamente strutturata e la sua prima funzione fu, prima di tutto, difensiva. I palazzi e le città micenee avevano l’aspetto di solide fortezze, difficilmente accessibili, perché circondate da mura spesse e imponenti. A Micene, le mura sono alte 13 m, per uno spessore di 6, e sono costituite da blocchi di pietra che pesano fino a 6 tonnellate; quelle di Tirinto sono spesse 11 m e in alcuni tratti addirittura 20, tanto da essere attraversate al loro interno da un corridoio percorribile. Si stima che i blocchi più grandi delle mura di Tirinto pesino circa 20 tonnellate. Il palazzo reale Il tipico palazzo reale acheo, come quello di Tirinto, benché affrescato alla maniera cretese, fu assai diverso dal modello minoico: era, innanzi tutto, molto più semplice e organico, con parecchi ambienti ma ordinati razionalmente. Presentava, nel suo complesso, un aspetto compatto; il centro della sua architettura non era, come nel palazzo cretese, la grande piazza-cortile ma un imponente nucleo di rappresentanza, chiamato nel suo complesso mègaron, che si affacciava su un piccolo cortile porticato. L’architettura micenea Il mègaron miceneo Il mègaron propriamente inteso era la sala del trono, di forma rettangolare, munita di focolare circolare al centro e con il tetto sostenuto da quattro colonne. Il mègaron era preceduto da un’antisala, o pròdromos, e questa da un portico d’ingresso, o vestibolo, cioè un vano di passaggio dotato di colonne di legno su basi di pietra. Si accedeva dal vestibolo all’antisala attraverso tre porte e da questa al mègaron per una sola porta. Nel mègaron, splendidamente ornato, il sovrano riceveva gli ospiti e gli ambasciatori, organizzava i pranzi ufficiali e rituali e assisteva agli spettacoli per lui allestiti. L’area archeologica di Micene Micene, fondata a nove chilometri da Argo, fu una delle più importanti città della civiltà achea in Grecia. Raggiunse la sua massima fioritura tra il 1600 e il 1100 a.C. Le testimonianze architettoniche più importanti risalgono, comunque, al periodo compreso fra il 1350 e il 1250 a.C. All’epoca, la città contava circa 30.000 abitanti, inclusi quelli che vivevano fuori dalle mura. È a questa fase della storia di Micene che si fa risalire il tracciato definitivo del suo potente sistema difensivo, formato da grandiose mura a strapiombo che facevano apparire il nucleo della città imponente e inaccessibile. Il suo sito archeologico,

    8 min
  6. 16/10/2024

    Martini e Petrarca

    Versione audio: A Siena, già dalla metà del XIII secolo, la prosperità economica, l’apertura verso i grandi mercati d’Oriente e d’Occidente, nonché la presenza di Nicola e Giovanni Pisano nei cantieri del Duomo avevano avviato fin dal Duecento la fioritura di una civiltà artistica che aveva trovato il suo più autorevole protagonista nel pittore Guido da Siena. Fu tuttavia nel Trecento, con Duccio, ideale antagonista di Giotto, che la pittura senese si propose come polo alternativo a quello fiorentino; il grande maestro e i suoi discepoli (soprattutto Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti), pittori di livello eccelso, fondarono in tal modo una sorta di “scuola” i cui caratteri distintivi, felicemente trapiantati in Europa, dalla Francia alla Sicilia, si mantennero pressoché invariati sino al Quattrocento inoltrato, opponendosi di fatto, sia pure senza successo, alla diffusione del nuovo linguaggio rinascimentale. Martini e Petrarca Martini a Siena Non è rimasto nulla della prima produzione di Simone Martini (1284-1344), per cui è difficile ricostruire la sua formazione; la frequentazione della bottega di Duccio, tuttavia, non viene messa in discussione. La prima opera certa dell’artista è la Maestà commissionatagli dal governo dei Nove, signori di Siena, e affrescata all’interno del Palazzo Pubblico fra il 1313 e il 1315, nonché ritoccata dallo stesso autore nel 1321. Il grande dipinto occupa tutta la parete d’onore della maggior sala, che un tempo si chiamava Sala del Consiglio o della Balestra e poi nota come Sala del Mappamondo. Simone, all’epoca, era un artista trentenne già maturo, non condizionato dai legami con la tradizione bizantina e proiettato verso un linguaggio internazionale. Nonostante, o forse proprio in forza della sua adesione al Gotico europeo, appariva desideroso di competere con Giotto. La scelta da parte del governo senese di affidare la realizzazione di quest’opera proprio a lui, con Duccio ancora in vita, può spiegarsi solo ipotizzando che i maggiorenti della città avessero considerato il linguaggio del discepolo più aggiornato e moderno di quello del maestro. Nell’opera del Martini domina, infatti, una sublime eleganza, che avvicina l’opera al gusto d’Oltralpe, soprattutto francese. Martini e Petrarca Simone conferì alla sua Maestà lo splendore cromatico di un’opera di oreficeria. Egli arricchì la superficie pittorica con vetri colorati, parti metalliche dipinte, foglie d’oro zecchino, rilievi a stucco, inserti di carta, che solo in parte si sono conservati. A un primo sguardo, le parti più antiche dell’affresco evidenziano la forte influenza della lezione duccesca. Nel contempo, un maggiore respiro spaziale testimonia che Martini aveva già elaborato uno stile del tutto personale, che contemplava anche una certa affinità con l’arte di Giotto. Ad Assisi Nel 1312, il cardinale Gentile Partino da Montefiore, si recò a Siena dove incontrò Martini. In tale occasione, lo incaricò di affrescare la Cappella di San Martino, la prima a sinistra nella Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi, da lui voluta e fatta costruire. Il cardinale non fece in tempo a vedere i lavori ultimati perché morì prima, anche se l’artista portò ugualmente l’opera a termine. La decorazione della cappella avvenne in tre fasi, tra il 1313 e il 1318. In questo lasso di tempo, infatti, Simone fece la spola tra Assisi, Siena (dove stava dipingendo la Maestà) e Napoli, per seguire contemporaneamente diverse commissioni. Martini e Petrarca Il ciclo di dieci affreschi racconta le Storie di san Martino. L’influenza di Giotto è assai evidente nel realismo delle architetture e nel gioco chiaroscurale delle luci e delle ombre, che tiene conto della posizione delle finestre. Tuttavia, Simone scelse di presentare il tema sacro attraverso un’interpretazione profana e cortese, cogliendo un’occasione privilegiata per esprimere ideali di tipo cavalleresco.

    12 min
  7. 15/10/2024

    Le basiliche di San Lorenzo e di Santo Spirito di Brunelleschi

    Versione audio: Filippo Brunelleschi (1377-1446), scultore, architetto, ingegnere e matematico, è riconosciuto da tutti come il padre del Rinascimento. È stato il primo a chiudere la stagione del Gotico e a riportare l’arte e l’architettura sulla strada del classicismo, riconoscendo l’arte classica come modello assoluto. Vasari, nel Cinquecento, scrisse che «Ei ci fu donato dal cielo per dar nuova forma all’architettura». Le basiliche di Brunelleschi Iniziò la sua carriera come orafo, poi divenne scultore e partecipò al concorso per la porta del Battistero fiorentino. Tuttavia, la grandezza di Brunelleschi è legata alla sua attività di architetto. Come ben espresse Vasari, Brunelleschi non si limitò a trasformare il repertorio gotico adottando nuovamente l’ordine architettonico classico (il corinzio, per esattezza) e l’arco a tutto sesto in sostituzione di quello a sesto acuto; imitando gli antichi, egli elaborò un metodo progettuale rigoroso, e fu il primo a creare una nuova figura professionale di architetto. San Lorenzo Nel 1420, Giovanni di Bicci dei Medici (1360- 1429), padre di Cosimo, incaricò Brunelleschi di progettare una cappella funebre per la sua famiglia, adiacente al transetto sinistro della Basilica paleocristiana di San Lorenzo. Filippo vi lavorò per sette anni, dal 1421 al 1428. Questo piccolo ambiente, poi chiamato Sagrestia Vecchia, è considerato un capolavoro del primo Rinascimento, anche perché vi lavorarono, assieme a Brunelleschi, Donatello e Michelozzo, che contribuirono (in una seconda fase) alla sua decorazione. L’opera è l’unica che il grande architetto portò a termine durante la sua vita, curandola fino al termine dei lavori. Tra il 1418 e il 1421, su richiesta del priore della Basilica di San Lorenzo, la Signoria di Firenze concesse il permesso di abbattere la vecchia chiesa paleocristiana per ricostruirla in forme moderne. Il principale sostenitore e finanziatore dell’impresa fu Giovanni di Bicci dei Medici, già committente della Sagrestia Vecchia, che chiese e ottenne di affidare l’opera al suo architetto Brunelleschi. Filippo concepì il grandioso progetto di una basilica interamente circondata da grandi cappelle, inclusa la sua Sagrestia Vecchia, con un ampio spazio cruciforme a una sola navata. Tuttavia, Giovanni dei Medici, e dopo di lui Cosimo, non accettarono la sua proposta perché sarebbe risultata troppo costosa. Brunelleschi, in disaccordo con Cosimo, abbandonò il cantiere che venne affidato ad Antonio Manetti Ciaccheri (1402-1460). La pianta della chiesa poi realizzata, divisa in tre navate, è ottenuta dalla ripetizione di campate quadrate tutte uguali, ognuna delle quali è adottata come modulo di base. Le due navate laterali si dividono in una serie regolare di cubi immaginari sormontati da volte a vela. Le pareti sono decorate da lesene che inquadrano gli archi a tutto sesto delle attuali cappelline, le quali, però, non rispettano più questo principio di modularità, come Brunelleschi avrebbe coerentemente voluto. Santo Spirito Progettata nel 1428 ma iniziata nel 1444, la Basilica di Santo Spirito fu completata dopo la morte di Brunelleschi; tuttavia, rispetto alla Basilica di San Lorenzo, essa venne realizzata con maggiore fedeltà al progetto originario. Ha una pianta a croce latina costruita utilizzando come modulo le campate quadrate delle navate minori coperte a vela, che proseguono oltre il transetto e intorno al coro, realizzando una sorta di deambulatorio. Sulle campate si affacciano, lungo l’intero perimetro basilicale, quaranta cappelline semicircolari, che nell’intenzione di Filippo avrebbero dovuto mostrare all’esterno la propria convessità, ma furono poi nascoste da una più tradizionale parete continua. Il dado brunelleschiano Brunelleschi inaugurò una nuova stagione culturale, perché adottò sistematicamente l’ordine corinzio, l’arco a tutto sesto e, ispirandosi agli antichi,

    6 min
  8. 14/10/2024

    Fidia. La decorazione del Partenone

    Versione audio: Lo scultore ateniese Fidia (490 a.C.ca.-430 a.C.ca.), l’artista più ammirato e celebrato dell’antichità, è considerato uno degli esponenti più autorevoli della straordinaria stagione classica. La sua fortuna è legata alla produzione di alcune sculture monumentali e grandiose, tra cui l’Athena Parthènos del Partenone ad Atene e soprattutto lo Zeus Olimpio del Tempio di Zeus a Olimpia, celebrato come una delle sette meraviglie del mondo. Egli fu, soprattutto, l’artefice della magnifica decorazione scultorea del Partenone, il principale tempio dell’Acropoli di Atene, giunta sino a noi in buona parte, anche se in condizioni molto frammentarie. La decorazione del Partenone La decorazione del Partenone Per la decorazione scultorea del Partenone, Fidia si occupò non solo della monumentale statua di Athena Parthènos per il nàos del tempio ma anche delle sculture a tutto tondo dei frontoni e dei bassorilievi dei due fregi: quello dorico della trabeazione e quello continuo, detto ionico, che correva in alto sulle pareti della cella. Questo impegno occupò l’artista per ben quindici anni. Fidia fu l’ideatore ma non l’autore delle figure del Partenone; in altre parole, non le scolpì con le proprie mani, almeno non tutte. Una decisione del genere avrebbe comportato tempi di attuazione lunghissimi. Fidia certamente coordinò un nutrito gruppo di artisti e, al fine di uniformare il lavoro, seguì di persona la realizzazione delle sculture, intervenne, guidò, riprese, corresse. La logica e la verifica sui frammenti rimasti ci spingono a ipotizzare che maggiore fu la sua attenzione, e quindi più consistente il proprio impegno personale, laddove l’opera richiedeva un più alto livello rappresentativo: massima, dunque, per la scultura del nàos e per le sculture frontonali, che difatti sono di qualità eccelsa, minore per il fregio ionico, minima per le metope, delle quali forse si limitò a consegnare i disegni o i modelli, lasciando ampi margini di libertà ai collaboratori. Si deve anche considerare che Fidia si trasferì ad Olimpia nel 438 a.C. e che quindi, dopo questa data, non poté nemmeno seguire l’attività del gruppo con regolarità. Le sculture di Fidia rimasero al loro posto per oltre duemila anni, finché, nel 1801, l’ambasciatore britannico a Costantinopoli, Lord Elgin, ottenne dal Sultano l’autorizzazione a prelevare alcuni pezzi del Partenone, promettendo di non danneggiare la struttura. In realtà strappò al tempio tutte le sculture che riuscì a trasportare in Inghilterra. È per questo che i capolavori di Fidia sono oggi conservati al British Museum di Londra. La decorazione del Partenone I frontoni Il Frontone orientale raffigurava il tema della Nascita di Athena dalla testa di Zeus, al cospetto di altri dèi. Poche le sculture del frontone orientale rimaste più o meno integre (se ne sono salvate solo otto su ventuno); tra queste, il bellissimo nudo sdraiato di Dioniso e il gruppo di Leto, Dione e Afrodite. Tutte le sculture furono perfettamente compiute e definite nei dettagli, anche nella loro parte posteriore, benché, data la loro collocazione, certe finezze non sarebbero mai state apprezzabili ad occhio nudo. Il Frontone occidentale era invece decorato da una scena più complessa, che descriveva la Gara tra Athena e Poseidone per la conquista dell’Attica. Anche di questo frontone sono rimasti pochi frammenti di statue, tra cui la personificazione del fiume Cèfiso. Il Fregio ionico Il Fregio ionico, un tempo vivacemente colorato, si sviluppava per 160 metri sulla parete esterna della cella; se ne sono conservati 130 metri, cioè l’80% circa, oggi dislocati, a pezzi, in vari musei d’Europa. I suoi rilievi illustravano la Processione delle Panatenee, la più importante festa civile e religiosa della città, dedicata ad Atena. Le figure sopravvissute sono in tutto 355, realizzate con un bassorilievo molto schiacciato e con un aggetto di appena cinque centimetri.

    7 min

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