Arte Svelata

Arte Svelata
Arte Svelata

Un luogo d'incontro per chi ama l’arte e vuole scoprirne la storia e i segreti.

  1. 18 OCT

    Da Van Gogh a Kierkegaard. La chiesa di Auvers

    Versione audio: Vincent van Gogh (1853-1890) fu un pittore olandese, tra i più importanti del XIX secolo e di tutti i tempi. In pochi anni di attività, dipinse quasi novecento quadri e realizzato più di mille disegni. Con la sua arte fortemente espressiva, influenzò profondamente l’arte del Novecento. Fu sempre un uomo difficile, angosciato e come tale distruttivo per sé stesso e per gli altri. Un infelice che procurava infelicità. Non sorrideva mai. Era sempre trasandato, capelli rossi arruffati e barba incolta. Anche il suo comportamento era strano: stava a lungo zitto, poi iniziava a parlare e non la smetteva più. Tutti lo consideravano bizzarro, ma per molti era proprio matto e così la gente lo evitava. Infatti, Vincent soffrì tantissimo di solitudine. Poco prima del Natale 1888, in preda a una crisi, Vincent si tagliò l’orecchio sinistro. Venne prima ricoverato presso l’ospedale di Arles, poi nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, dove dipinse capolavori intensi, tra cui La notte stellata. Nel 1890, si trasferì ad Auvers-sur-Oise, presso Parigi, per essere curato dal dottor Paul Gachet. Ma il suo equilibrio psichico era molto compromesso, la vita gli appariva come bloccata dal dolore. L’unica forma di consolazione rimase la pittura. La chiesa di Auvers Ad Auvers, appena un mese prima di morire, Van Gogh volle dipingere la piccola chiesa del paese, dedicata a Notre-Dame, un minuscolo edificio gotico del XII-XIII secolo. Leggiamo in una lettera indirizzata alla sorella Wilhelmina: «Ho un’immagine più grande della chiesa del villaggio, con effetto in cui la costruzione sembra essere viola contro un cielo di semplice blu scuro, cobalto puro; le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato. Sullo sfondo, alcune piante in fiore e sabbia con il riflesso rosa del sole. Ed ancora una volta è simile agli studi che ho fatto a Nuenen della vecchia torre del cimitero, solo probabilmente ora il colore è più espressivo, più sontuoso». Van Gogh aveva scelto, per rappresentare la chiesa, una veduta absidale. Come suo solito, aveva trasformato completamente ciò che si trovava davanti ai suoi occhi. Un pieno di Cielo Nel quadro di Vincent, intitolato La chiesa di Auvers, il sentiero in primo piano che si biforca così come il prato che circonda l’edificio sono diventati incerti e malfermi. Anche la chiesa presenta forme fluide e ondulate, con un effetto vagamente ipnotico. La terra si agita e in tal modo esprime l’agitazione interiore dell’artista. Il cielo invece, simbolo del divino, è calmo e sembra entrare nell’edificio e riempirlo totalmente; un Cielo che richiama chiaramente la fede di Vincent, l’unica àncora che gli restava per contrastare la perdita del dominio di sé. Sappiamo che in Van Gogh il pessimismo esistenziale, oramai radicato in modo profondo e come tale inestirpabile, conviveva a fatica con una fede coltivata negli anni, contrastata, vacillante ma mai del tutto ricusata. Una fede (in Dio, innanzi tutto, ma anche nella vita) che non sarebbe stata sufficiente a salvarlo ma che fino all’ultimo, come dimostra questo dipinto, accompagnò la sua faticosa esistenza. L’esistenzialismo di Kierkegaard Questa particolare posizione esistenziale richiama il pensiero del filosofo e teologo ottocentesco Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855), considerato da molti studiosi il precursore dell’esistenzialismo. Profondamente segnato da alcuni lutti familiari e soprattutto dalla rigidissima educazione impartitagli dagli anziani genitori, Kierkegaard fu, come Vincent, un uomo profondamente introspettivo e malinconico. «Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere»: così racconta il filosofo, che giunse a credersi oggetto di una maledizione divina,

    6 min
  2. 17 OCT

    L’architettura micenea

    Versione audio: Verso l’inizio del secondo millennio a.C., gli Achei si stabilirono nel Peloponneso, una regione della penisola greca; qui fondarono alcuni importanti centri urbani: Pilo, Argo, Tebe, Atene, Tirinto e Micene, città, quest’ultima, da cui prese il nome l’intera civiltà. Ogni città micenea era dotata di un palazzo fortificato, dove risiedevano il re e alcuni guerrieri. I Micenei affermarono la loro potenza intorno al 1450 a.C., dopo aver occupato l’isola di Creta e distrutto i suoi gloriosi palazzi. Da quel momento, furono i Micenei e non più i Cretesi a dominare sul Mediterraneo. L’architettura micenea Attorno al 1250 a.C., i re del Peloponneso, cui la tradizione ha dato un nome, Agamennone e Menelao, strinsero alleanza per una comune spedizione contro Troia, ricca città della costa anatolica che controllava gli accessi al Mar Nero. La difficile conquista e la distruzione di Troia, cantate nell’Iliade e nell’Odissea da Omero, poeta epico greco dell’VIII secolo a.C., furono pagate a caro prezzo dai Micenei: pochi decenni dopo, infatti, ebbe inizio il loro declino, lento ma progressivo. I Micenei subirono infine l’invasione dei Dori, un popolo greco giunto da Nord. Nel 1100 a.C. la loro civiltà fu cancellata ed ebbe inizio la cosiddetta “età oscura” o Medioevo ellenico. Mura possenti L’immagine tradizionale che la storia ci ha tramandato dei Micenei è quella di un popolo guerriero e aggressivo. In effetti, l’architettura micenea riflette il carattere di una civiltà chiusa e rigidamente strutturata e la sua prima funzione fu, prima di tutto, difensiva. I palazzi e le città micenee avevano l’aspetto di solide fortezze, difficilmente accessibili, perché circondate da mura spesse e imponenti. A Micene, le mura sono alte 13 m, per uno spessore di 6, e sono costituite da blocchi di pietra che pesano fino a 6 tonnellate; quelle di Tirinto sono spesse 11 m e in alcuni tratti addirittura 20, tanto da essere attraversate al loro interno da un corridoio percorribile. Si stima che i blocchi più grandi delle mura di Tirinto pesino circa 20 tonnellate. Il palazzo reale Il tipico palazzo reale acheo, come quello di Tirinto, benché affrescato alla maniera cretese, fu assai diverso dal modello minoico: era, innanzi tutto, molto più semplice e organico, con parecchi ambienti ma ordinati razionalmente. Presentava, nel suo complesso, un aspetto compatto; il centro della sua architettura non era, come nel palazzo cretese, la grande piazza-cortile ma un imponente nucleo di rappresentanza, chiamato nel suo complesso mègaron, che si affacciava su un piccolo cortile porticato. L’architettura micenea Il mègaron miceneo Il mègaron propriamente inteso era la sala del trono, di forma rettangolare, munita di focolare circolare al centro e con il tetto sostenuto da quattro colonne. Il mègaron era preceduto da un’antisala, o pròdromos, e questa da un portico d’ingresso, o vestibolo, cioè un vano di passaggio dotato di colonne di legno su basi di pietra. Si accedeva dal vestibolo all’antisala attraverso tre porte e da questa al mègaron per una sola porta. Nel mègaron, splendidamente ornato, il sovrano riceveva gli ospiti e gli ambasciatori, organizzava i pranzi ufficiali e rituali e assisteva agli spettacoli per lui allestiti. L’area archeologica di Micene Micene, fondata a nove chilometri da Argo, fu una delle più importanti città della civiltà achea in Grecia. Raggiunse la sua massima fioritura tra il 1600 e il 1100 a.C. Le testimonianze architettoniche più importanti risalgono, comunque, al periodo compreso fra il 1350 e il 1250 a.C. All’epoca, la città contava circa 30.000 abitanti, inclusi quelli che vivevano fuori dalle mura. È a questa fase della storia di Micene che si fa risalire il tracciato definitivo del suo potente sistema difensivo, formato da grandiose mura a strapiombo che facevano apparire il nucleo della città imponente e inaccessibile. Il suo sito

    8 min
  3. 16 OCT

    Martini e Petrarca

    Versione audio: A Siena, già dalla metà del XIII secolo, la prosperità economica, l’apertura verso i grandi mercati d’Oriente e d’Occidente, nonché la presenza di Nicola e Giovanni Pisano nei cantieri del Duomo avevano avviato fin dal Duecento la fioritura di una civiltà artistica che aveva trovato il suo più autorevole protagonista nel pittore Guido da Siena. Fu tuttavia nel Trecento, con Duccio, ideale antagonista di Giotto, che la pittura senese si propose come polo alternativo a quello fiorentino; il grande maestro e i suoi discepoli (soprattutto Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti), pittori di livello eccelso, fondarono in tal modo una sorta di “scuola” i cui caratteri distintivi, felicemente trapiantati in Europa, dalla Francia alla Sicilia, si mantennero pressoché invariati sino al Quattrocento inoltrato, opponendosi di fatto, sia pure senza successo, alla diffusione del nuovo linguaggio rinascimentale. Martini e Petrarca Martini a Siena Non è rimasto nulla della prima produzione di Simone Martini (1284-1344), per cui è difficile ricostruire la sua formazione; la frequentazione della bottega di Duccio, tuttavia, non viene messa in discussione. La prima opera certa dell’artista è la Maestà commissionatagli dal governo dei Nove, signori di Siena, e affrescata all’interno del Palazzo Pubblico fra il 1313 e il 1315, nonché ritoccata dallo stesso autore nel 1321. Il grande dipinto occupa tutta la parete d’onore della maggior sala, che un tempo si chiamava Sala del Consiglio o della Balestra e poi nota come Sala del Mappamondo. Simone, all’epoca, era un artista trentenne già maturo, non condizionato dai legami con la tradizione bizantina e proiettato verso un linguaggio internazionale. Nonostante, o forse proprio in forza della sua adesione al Gotico europeo, appariva desideroso di competere con Giotto. La scelta da parte del governo senese di affidare la realizzazione di quest’opera proprio a lui, con Duccio ancora in vita, può spiegarsi solo ipotizzando che i maggiorenti della città avessero considerato il linguaggio del discepolo più aggiornato e moderno di quello del maestro. Nell’opera del Martini domina, infatti, una sublime eleganza, che avvicina l’opera al gusto d’Oltralpe, soprattutto francese. Martini e Petrarca Simone conferì alla sua Maestà lo splendore cromatico di un’opera di oreficeria. Egli arricchì la superficie pittorica con vetri colorati, parti metalliche dipinte, foglie d’oro zecchino, rilievi a stucco, inserti di carta, che solo in parte si sono conservati. A un primo sguardo, le parti più antiche dell’affresco evidenziano la forte influenza della lezione duccesca. Nel contempo, un maggiore respiro spaziale testimonia che Martini aveva già elaborato uno stile del tutto personale, che contemplava anche una certa affinità con l’arte di Giotto. Ad Assisi Nel 1312, il cardinale Gentile Partino da Montefiore, si recò a Siena dove incontrò Martini. In tale occasione, lo incaricò di affrescare la Cappella di San Martino, la prima a sinistra nella Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi, da lui voluta e fatta costruire. Il cardinale non fece in tempo a vedere i lavori ultimati perché morì prima, anche se l’artista portò ugualmente l’opera a termine. La decorazione della cappella avvenne in tre fasi, tra il 1313 e il 1318. In questo lasso di tempo, infatti, Simone fece la spola tra Assisi, Siena (dove stava dipingendo la Maestà) e Napoli, per seguire contemporaneamente diverse commissioni. Martini e Petrarca Il ciclo di dieci affreschi racconta le Storie di san Martino. L’influenza di Giotto è assai evidente nel realismo delle architetture e nel gioco chiaroscurale delle luci e delle ombre, che tiene conto della posizione delle finestre. Tuttavia, Simone scelse di presentare il tema sacro attraverso un’interpretazione profana e cortese, cogliendo un’occasione privilegiata per esprimere ideali di tipo cavallere

    12 min
  4. 15 OCT

    Le basiliche di San Lorenzo e di Santo Spirito di Brunelleschi

    Versione audio: Filippo Brunelleschi (1377-1446), scultore, architetto, ingegnere e matematico, è riconosciuto da tutti come il padre del Rinascimento. È stato il primo a chiudere la stagione del Gotico e a riportare l’arte e l’architettura sulla strada del classicismo, riconoscendo l’arte classica come modello assoluto. Vasari, nel Cinquecento, scrisse che «Ei ci fu donato dal cielo per dar nuova forma all’architettura». Le basiliche di Brunelleschi Iniziò la sua carriera come orafo, poi divenne scultore e partecipò al concorso per la porta del Battistero fiorentino. Tuttavia, la grandezza di Brunelleschi è legata alla sua attività di architetto. Come ben espresse Vasari, Brunelleschi non si limitò a trasformare il repertorio gotico adottando nuovamente l’ordine architettonico classico (il corinzio, per esattezza) e l’arco a tutto sesto in sostituzione di quello a sesto acuto; imitando gli antichi, egli elaborò un metodo progettuale rigoroso, e fu il primo a creare una nuova figura professionale di architetto. San Lorenzo Nel 1420, Giovanni di Bicci dei Medici (1360- 1429), padre di Cosimo, incaricò Brunelleschi di progettare una cappella funebre per la sua famiglia, adiacente al transetto sinistro della Basilica paleocristiana di San Lorenzo. Filippo vi lavorò per sette anni, dal 1421 al 1428. Questo piccolo ambiente, poi chiamato Sagrestia Vecchia, è considerato un capolavoro del primo Rinascimento, anche perché vi lavorarono, assieme a Brunelleschi, Donatello e Michelozzo, che contribuirono (in una seconda fase) alla sua decorazione. L’opera è l’unica che il grande architetto portò a termine durante la sua vita, curandola fino al termine dei lavori. Tra il 1418 e il 1421, su richiesta del priore della Basilica di San Lorenzo, la Signoria di Firenze concesse il permesso di abbattere la vecchia chiesa paleocristiana per ricostruirla in forme moderne. Il principale sostenitore e finanziatore dell’impresa fu Giovanni di Bicci dei Medici, già committente della Sagrestia Vecchia, che chiese e ottenne di affidare l’opera al suo architetto Brunelleschi. Filippo concepì il grandioso progetto di una basilica interamente circondata da grandi cappelle, inclusa la sua Sagrestia Vecchia, con un ampio spazio cruciforme a una sola navata. Tuttavia, Giovanni dei Medici, e dopo di lui Cosimo, non accettarono la sua proposta perché sarebbe risultata troppo costosa. Brunelleschi, in disaccordo con Cosimo, abbandonò il cantiere che venne affidato ad Antonio Manetti Ciaccheri (1402-1460). La pianta della chiesa poi realizzata, divisa in tre navate, è ottenuta dalla ripetizione di campate quadrate tutte uguali, ognuna delle quali è adottata come modulo di base. Le due navate laterali si dividono in una serie regolare di cubi immaginari sormontati da volte a vela. Le pareti sono decorate da lesene che inquadrano gli archi a tutto sesto delle attuali cappelline, le quali, però, non rispettano più questo principio di modularità, come Brunelleschi avrebbe coerentemente voluto. Santo Spirito Progettata nel 1428 ma iniziata nel 1444, la Basilica di Santo Spirito fu completata dopo la morte di Brunelleschi; tuttavia, rispetto alla Basilica di San Lorenzo, essa venne realizzata con maggiore fedeltà al progetto originario. Ha una pianta a croce latina costruita utilizzando come modulo le campate quadrate delle navate minori coperte a vela, che proseguono oltre il transetto e intorno al coro, realizzando una sorta di deambulatorio. Sulle campate si affacciano, lungo l’intero perimetro basilicale, quaranta cappelline semicircolari, che nell’intenzione di Filippo avrebbero dovuto mostrare all’esterno la propria convessità, ma furono poi nascoste da una più tradizionale parete continua. Il dado brunelleschiano Brunelleschi inaugurò una nuova stagione culturale, perché adottò sistematicamente l’ordine corinzio, l’arco a tutto sesto e, ispirandosi agli antichi,

    6 min
  5. 14 OCT

    Fidia. La decorazione del Partenone

    Versione audio: Lo scultore ateniese Fidia (490 a.C.ca.-430 a.C.ca.), l’artista più ammirato e celebrato dell’antichità, è considerato uno degli esponenti più autorevoli della straordinaria stagione classica. La sua fortuna è legata alla produzione di alcune sculture monumentali e grandiose, tra cui l’Athena Parthènos del Partenone ad Atene e soprattutto lo Zeus Olimpio del Tempio di Zeus a Olimpia, celebrato come una delle sette meraviglie del mondo. Egli fu, soprattutto, l’artefice della magnifica decorazione scultorea del Partenone, il principale tempio dell’Acropoli di Atene, giunta sino a noi in buona parte, anche se in condizioni molto frammentarie. La decorazione del Partenone La decorazione del Partenone Per la decorazione scultorea del Partenone, Fidia si occupò non solo della monumentale statua di Athena Parthènos per il nàos del tempio ma anche delle sculture a tutto tondo dei frontoni e dei bassorilievi dei due fregi: quello dorico della trabeazione e quello continuo, detto ionico, che correva in alto sulle pareti della cella. Questo impegno occupò l’artista per ben quindici anni. Fidia fu l’ideatore ma non l’autore delle figure del Partenone; in altre parole, non le scolpì con le proprie mani, almeno non tutte. Una decisione del genere avrebbe comportato tempi di attuazione lunghissimi. Fidia certamente coordinò un nutrito gruppo di artisti e, al fine di uniformare il lavoro, seguì di persona la realizzazione delle sculture, intervenne, guidò, riprese, corresse. La logica e la verifica sui frammenti rimasti ci spingono a ipotizzare che maggiore fu la sua attenzione, e quindi più consistente il proprio impegno personale, laddove l’opera richiedeva un più alto livello rappresentativo: massima, dunque, per la scultura del nàos e per le sculture frontonali, che difatti sono di qualità eccelsa, minore per il fregio ionico, minima per le metope, delle quali forse si limitò a consegnare i disegni o i modelli, lasciando ampi margini di libertà ai collaboratori. Si deve anche considerare che Fidia si trasferì ad Olimpia nel 438 a.C. e che quindi, dopo questa data, non poté nemmeno seguire l’attività del gruppo con regolarità. Le sculture di Fidia rimasero al loro posto per oltre duemila anni, finché, nel 1801, l’ambasciatore britannico a Costantinopoli, Lord Elgin, ottenne dal Sultano l’autorizzazione a prelevare alcuni pezzi del Partenone, promettendo di non danneggiare la struttura. In realtà strappò al tempio tutte le sculture che riuscì a trasportare in Inghilterra. È per questo che i capolavori di Fidia sono oggi conservati al British Museum di Londra. La decorazione del Partenone I frontoni Il Frontone orientale raffigurava il tema della Nascita di Athena dalla testa di Zeus, al cospetto di altri dèi. Poche le sculture del frontone orientale rimaste più o meno integre (se ne sono salvate solo otto su ventuno); tra queste, il bellissimo nudo sdraiato di Dioniso e il gruppo di Leto, Dione e Afrodite. Tutte le sculture furono perfettamente compiute e definite nei dettagli, anche nella loro parte posteriore, benché, data la loro collocazione, certe finezze non sarebbero mai state apprezzabili ad occhio nudo. Il Frontone occidentale era invece decorato da una scena più complessa, che descriveva la Gara tra Athena e Poseidone per la conquista dell’Attica. Anche di questo frontone sono rimasti pochi frammenti di statue, tra cui la personificazione del fiume Cèfiso. Il Fregio ionico Il Fregio ionico, un tempo vivacemente colorato, si sviluppava per 160 metri sulla parete esterna della cella; se ne sono conservati 130 metri, cioè l’80% circa, oggi dislocati, a pezzi, in vari musei d’Europa. I suoi rilievi illustravano la Processione delle Panatenee, la più importante festa civile e religiosa della città, dedicata ad Atena. Le figure sopravvissute sono in tutto 355, realizzate con un bassorilievo molto schiacciato e con un aggetto di appena cinqu

    7 min
  6. 25 SEPT

    Disney, Dalì, il cinema e il Surrealismo

    Versione audio: Il cinema ha avuto da subito un rapporto privilegiato con l’arte. Sono stati molti, nel corso del Novecento, i registi che si sono più o meno esplicitamente ispirati a opere famose per inquadrare certe loro scene, a volte spingendosi fino alla citazione, oppure che si sono ispirati a certi linguaggi pittorici, nella scelta delle scenografie, delle inquadrature o delle luci. In fondo, il cinema non è altro che l’evoluzione della fotografia, che a sua volta si era ispirata alla pittura. In alcuni casi, sono stati invece gli artisti a prendere posizione rispetto al mondo del cinema, con contributi critici oppure partecipando direttamente alla stesura delle sceneggiature o alla realizzazione delle scenografie. De Chirico e il cinema Il pittore metafisico Giorgio de Chirico (1888-1978), per esempio, realizzò diverse scenografie e costumi per cinema e teatro. Nel suo Discorso sul cinematografo del 1943, propose diverse riflessioni sulle possibilità espressive del cinema. Secondo il pittore, la cosiddetta “settima arte” ha lo straordinario potere di «trasportare lo spettatore al di là della propria esistenza, in un mondo dove si può vivere una vita emotivamente più intensa, più intima e per certi versi più vera. Le immagini cinematografiche per il pittore sono come fantasmi, in grado di suscitare profonde emozioni, fatte più di spirito che di materia, e incarnare gli aspetti misteriosi, profondi e insondabili della vita» (V.Polito). Dalí e il cinema Anche i surrealisti dimostrarono sempre un vero e proprio entusiasmo per il cinema e gli riconobbero il potere di svelare la “surrealtà” e di liberare negli spettatori le forze dell’inconscio, allo stesso modo della loro pittura. André Breton (1896-1966), teorico del Surrealismo, nel primo Manifesto Surrealista definì il cinema «un occhio artificiale capace di riprendere uno spazio virtuale in cui immagini e realtà si fondono», in cui si incontrano le dimensioni del sogno e della vita. Salvador Dalí (1904-1989), fra i pittori surrealisti, fu quello che mostrò sempre il maggiore interesse per la cinematografia. Tra il 1928 e il 1929, pubblicò degli articoli in cui spiegò che in un film si potevano proporre immagini che sembravano provenire direttamente dall’inconscio. Dalí e Buñuel I film propriamente surrealisti sono davvero pochi, e i due principali videro coinvolto Dalí in prima persona. Con il regista d’avanguardia spagnolo Luis Buñuel (1900-1983), il pittore realizzò, nel 1929, Un chien andalou, considerato una pietra miliare del cinema surrealista. Nel 1930, Dalí collaborò nuovamente con Buñuel, scrivendo alcune delle scene presenti in un altro film, L’âge d’or. In un susseguirsi di immagini che abbandonano la logica lineare della narrazione per disorientare lo spettatore, Buñuel e Dalí affrontarono temi cari al Surrealismo, come la dimensione onirica e psicoanalitica, l’istinto sessuale e la tensione erotica. Nel cinema surrealista, come nella pittura, le immagini sono infatti simboliche e paradossali, il tempo e lo spazio vengono contratti o dilatati, senza alcuna aderenza alla realtà. Buñuel aveva affermato: «Io sono per un cinema che […] mi darà una visione integrale della realtà, accrescerà la mia conoscenza delle cose e delle creature, e mi spalancherà il meraviglioso mondo dell’ignoto». Buñuel concepiva il cinema come qualcosa di irriverente, utile a smontare la realtà convenzionale e la rappresentazione naturalistica per andare oltre l’apparenza delle cose. Ogni film, infatti, consente al pubblico di intraprendere un viaggio verso l’ignoto, accedendo a una dimensione poetica e misteriosa. Un chien andalou Un chien andalou (Un cane andaluso) è un cortometraggio di circa 20 minuti, le cui scene, apparentemente prive di coerenza narrativa e cronologica, si configurano come un vero e proprio delirio onirico. La sceneggiatura venne scritta in meno di una settimana,

    16 min
  7. 21 JUN

    Turner, Kant e la Natura imprevedibile

    Versione audio: Il Romanticismo è stato un movimento letterario, culturale e artistico sviluppatosi parallelamente al Neoclassicismo e che, a differenza di questo, ha affermato il valore del sentimento e della passionalità nella vita di ogni individuo. Ha esordito nella seconda metà del Settecento (primo Romanticismo, 1770-1815) e ha raggiunto la massima espressione nella prima metà dell’Ottocento (Romanticismo maturo, 1815-1850). In Inghilterra, sono state formulate due fondamentali definizioni legate all’arte romantica: il pittoresco e il sublime. Il pittoresco si identifica con tutto ciò che è spontaneo, che non segue gli schemi. Il sublime è, invece, quel particolare sentimento che nasce dall’ammirazione di qualcosa di grande e di spettacolare, che suscita in noi terrore e piacere allo stesso tempo. Turner William Turner (1775-1851) è stato un pittore inglese, tra i principali esponenti del Romanticismo europeo. Grande paesaggista, attraverso la rappresentazione della Natura ha voluto esprimere il senso tipicamente romantico del sublime. Uomo dal carattere difficile, solitario, tormentato, Turner espresse tutto il suo disagio nei confronti della vita attraverso gli spettacoli di una natura aggressiva, turbinosa, agitata da burrasche e bufere, capace di travolgere, a suo capriccio, un’umanità inerme e indifesa. Turner dipinse, ad olio e ad acquerello, soprattutto il mare, in ogni condizione: calmo, agitato, in tempesta. Le forme spesso appaiono confuse, ma l’intento dell’artista era quello di comunicare emozioni. Visioni interiori Come sostenne lo scrittore francese Charles Baudelaire nel suo saggio Che cos’è il Romanticismo (del 1846), il Romanticismo non risiede «nella scelta dei soggetti, né nella verità esatta, ma nel modo di sentire»; sicché, «mentre alcuni lo hanno ricercato nel dato esteriore, è possibile trovarlo solo nell’interiorità». Per questo, l’artista romantico indaga «gli aspetti della natura e le situazioni dell’uomo che gli artisti del passato hanno sdegnato o misconosciuto». Turner può essere considerato tra i più grandi interpreti di questa visione interiore, proiettata all’esterno sullo spettacolo del mondo. Privato dell’appoggio della Storia e delle vuote forme stilistiche della tradizione, Turner cercò rifugio nella Natura, intesa come forza onnipotente e indomabile, dotata di una bellezza inimitabile. Soltanto l’espressione vitale e autentica della Natura poteva fornire qualche risposta alle domande dell’artista e dell’uomo sul significato dell’esistenza. Così, lo sviluppo vivo e inesauribile delle forze naturali si tradusse, agli occhi di Turner, nell’esempio della spontaneità più vera, sollecitando la sua creatività istintiva e spregiudicata. Possiamo dire che Turner riconsiderò non solo il genere tradizionale del paesaggio ma l’idea stessa della pittura. La Natura secondo Kant Non c’è dubbio che questa potentissima concezione della Natura, questo senso dirompente per il sublime che guidarono il lavoro di Turner trovano sponda nel pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), per il quale il sentimento del sublime costituisce l’opportunità di un riscatto dell’uomo sulla Natura. Esso può sorgere dinanzi all’infinità quantitativa (sublime matematico) o accendersi allo spettacolo delle forze travolgenti del creato (sublime dinamico). Kant considerava la Natura come contingente e imprevedibile. Essa è difficile da conoscere e da inquadrare in leggi sempre più generali. Non è possibile, insomma, unificare interamente la Natura nel sistema del sapere umano. Secondo il filosofo, l’uomo, che non conosce “le cose in sé”, non può affermare in modo definitivo né che il mondo è sensato e organizzato ma nemmeno che esso è insensato e disorganizzato. Il mondo può essere solamente sperimentato, attraverso la sensibilità. Kant identifica la sensibilità con il “sentimento”: ciò che davvero con

  8. 21 JUN

    Schiele, Montale e il mal di vivere

    Versione audio: Una delle principali testimonianze del mal di vivere del primo Novecento fu la pittura di Egon Schiele (1890-1918), esponente dell’Espressionismo austriaco sviluppatosi nel contesto della Secessione viennese. Schiele, infatti, fu allievo di Klimt, che ancora agli inizi del Novecento era in attività e considerato da tutti un grande maestro e un modello da imitare. Egon fu artista sensibilissimo e tormentato. La sua dolorosa condizione esistenziale fu espressa prima di tutto dai molti autoritratti. Il pittore si mostra completamente nudo. Il suo corpo magro sembra malato; non si tratta di una malattia fisica: l’artista intende mostrare la malattia della propria anima. Alberi e girasoli Schiele amava osservare «il movimento corporeo delle montagne, dell’acqua, degli alberi e dei fiori. Dappertutto possiamo notare movimenti simili a quelli del corpo umano». «Interiormente, nel segreto del proprio essere e del proprio cuore, anche in piena estate si può vedere e sentire un albero autunnale. […] Tutto ciò che sta vivendo è già morto». Così scrisse, nell’agosto del 1912. Schiele, dunque, proiettò il proprio mal di vivere anche nei suoi splendidi paesaggi, segnati da alberi isolati e spogli e da fiori dalle evidenti qualità antropomorfe. La natura di Schiele ci pone in contatto diretto con la triste verità del vuoto dell’esistenza, esprime una visione sconfortata del mondo e della vita; è, dunque, puramente simbolica. I suoi alberi magri, i lunghi girasoli sfioriti ci parlano di tristezza e solitudine. Ad esempio, in Albero d’autunno, attraverso la rappresentazione della pianta secca e avvizzita, Schiele racconta l’esperienza angosciosa della precarietà. Quest’albero ritorto è, prima di tutto, l’immagine scarna ed essenziale di sé stesso e a un tempo la tragica prefigurazione della morte che lo attende. Altrettanto si può dire per la sua serie dei Girasoli, che richiama quella, ben più nota, di Van Gogh: con la differenza che il vitalismo dei fiori vangoghiani si è come spento, esaurito. I girasoli di Schiele sono riarsi, appassiti, rinsecchiti. Mentre, nel loro trionfo di giallo, i girasoli di Van Gogh rendevano omaggio alla vita ed esprimevano un anelito di speranza, quelli di Schiele testimoniano la presa d’atto della disillusione. Il suo Girasole del 1909-10, alto e magro, è ancora una volta una sorta di autoritratto simbolico, perché secco, malato, incapace di reggere il peso della sua grande testa sullo stelo lungo e dritto, compresso nello spazio strettissimo della tela, prossimo alla morte. I girasoli di Schiele sono privi di forza e di vitalità, sono fiori inetti, tragicamente prigionieri del proprio isolamento. Da Schiele a Montale «Portami il girasole ch‘io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto giallino. Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture. / Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; /portami il girasole impazzito di luce». Così scriveva, nel 1923, il poeta italiano Eugenio Montale (1896-1981), che di Schiele fu quasi coetaneo, nella poesia intitolata Portami il girasole ch’io lo trapianti, contenuta nella raccolta Ossi di seppia, edita nel 1925. C’è tutta la forza di una preghiera, in questi versi, e, nel contempo, la confessione della debolezza del poeta, la cui anima è presentata come un terreno bruciato dal salino. Il giallo del girasole (come, altrove, sempre nella poesia montaliana, quello dei limoni), è fonte di tenera consolazione, allevia il disincanto del poeta, per cui tutto, alla fine, altro non è che un’illusione. Montale ritiene che la poesia (come, per certi versi, l’arte) non sia in grado di portare ordine nel caos interiore dell’uomo,

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