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Un luogo d'incontro per chi ama l’arte e vuole scoprirne la storia e i segreti.

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    Turner, Kant e la Natura imprevedibile

    Turner, Kant e la Natura imprevedibile

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    Il Romanticismo è stato un movimento letterario, culturale e artistico sviluppatosi parallelamente al Neoclassicismo e che, a differenza di questo, ha affermato il valore del sentimento e della passionalità nella vita di ogni individuo. Ha esordito nella seconda metà del Settecento (primo Romanticismo, 1770-1815) e ha raggiunto la massima espressione nella prima metà dell’Ottocento (Romanticismo maturo, 1815-1850).

    In Inghilterra, sono state formulate due fondamentali definizioni legate all’arte romantica: il pittoresco e il sublime. Il pittoresco si identifica con tutto ciò che è spontaneo, che non segue gli schemi. Il sublime è, invece, quel particolare sentimento che nasce dall’ammirazione di qualcosa di grande e di spettacolare, che suscita in noi terrore e piacere allo stesso tempo.

    Turner

    William Turner (1775-1851) è stato un pittore inglese, tra i principali esponenti del Romanticismo europeo. Grande paesaggista, attraverso la rappresentazione della Natura ha voluto esprimere il senso tipicamente romantico del sublime. Uomo dal carattere difficile, solitario, tormentato, Turner espresse tutto il suo disagio nei confronti della vita attraverso gli spettacoli di una natura aggressiva, turbinosa, agitata da burrasche e bufere, capace di travolgere, a suo capriccio, un’umanità inerme e indifesa. Turner dipinse, ad olio e ad acquerello, soprattutto il mare, in ogni condizione: calmo, agitato, in tempesta. Le forme spesso appaiono confuse, ma l’intento dell’artista era quello di comunicare emozioni.

    Visioni interiori

    Come sostenne lo scrittore francese Charles Baudelaire nel suo saggio Che cos’è il Romanticismo (del 1846), il Romanticismo non risiede «nella scelta dei soggetti, né nella verità esatta, ma nel modo di sentire»; sicché, «mentre alcuni lo hanno ricercato nel dato esteriore, è possibile trovarlo solo nell’interiorità». Per questo, l’artista romantico indaga «gli aspetti della natura e le situazioni dell’uomo che gli artisti del passato hanno sdegnato o misconosciuto».

    Turner può essere considerato tra i più grandi interpreti di questa visione interiore, proiettata all’esterno sullo spettacolo del mondo. Privato dell’appoggio della Storia e delle vuote forme stilistiche della tradizione, Turner cercò rifugio nella Natura, intesa come forza onnipotente e indomabile, dotata di una bellezza inimitabile. Soltanto l’espressione vitale e autentica della Natura poteva fornire qualche risposta alle domande dell’artista e dell’uomo sul significato dell’esistenza. Così, lo sviluppo vivo e inesauribile delle forze naturali si tradusse, agli occhi di Turner, nell’esempio della spontaneità più vera, sollecitando la sua creatività istintiva e spregiudicata. Possiamo dire che Turner riconsiderò non solo il genere tradizionale del paesaggio ma l’idea stessa della pittura.

    La Natura secondo Kant

    Non c’è dubbio che questa potentissima concezione della Natura, questo senso dirompente per il sublime che guidarono il lavoro di Turner trovano sponda nel pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), per il quale il sentimento del sublime costituisce l’opportunità di un riscatto dell’uomo sulla Natura. Esso può sorgere dinanzi all’infinità quantitativa (sublime matematico) o accendersi allo spettacolo delle forze travolgenti del creato (sublime dinamico).

    Kant considerava la Natura come contingente e imprevedibile. Essa è difficile da conoscere e da inquadrare in leggi sempre più generali. Non è possibile, insomma, unificare interamente la Natura nel sistema del sapere umano. Secondo il filosofo, l’uomo, che non conosce “le cose in sé”, non può affermare in modo definitivo né che il mondo è sensato e organizzato ma nemmeno che esso è insensato e disorganizzato. Il mondo può essere solamente sperimentato, attraverso la sensibilità. Kant identifica la sensibilità con il “sentimento”: ciò che davvero con

    Schiele, Montale e il mal di vivere

    Schiele, Montale e il mal di vivere

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    Una delle principali testimonianze del mal di vivere del primo Novecento fu la pittura di Egon Schiele (1890-1918), esponente dell’Espressionismo austriaco sviluppatosi nel contesto della Secessione viennese. Schiele, infatti, fu allievo di Klimt, che ancora agli inizi del Novecento era in attività e considerato da tutti un grande maestro e un modello da imitare.

    Egon fu artista sensibilissimo e tormentato. La sua dolorosa condizione esistenziale fu espressa prima di tutto dai molti autoritratti. Il pittore si mostra completamente nudo. Il suo corpo magro sembra malato; non si tratta di una malattia fisica: l’artista intende mostrare la malattia della propria anima.

    Alberi e girasoli

    Schiele amava osservare «il movimento corporeo delle montagne, dell’acqua, degli alberi e dei fiori. Dappertutto possiamo notare movimenti simili a quelli del corpo umano». «Interiormente, nel segreto del proprio essere e del proprio cuore, anche in piena estate si può vedere e sentire un albero autunnale. […] Tutto ciò che sta vivendo è già morto». Così scrisse, nell’agosto del 1912. Schiele, dunque, proiettò il proprio mal di vivere anche nei suoi splendidi paesaggi, segnati da alberi isolati e spogli e da fiori dalle evidenti qualità antropomorfe. La natura di Schiele ci pone in contatto diretto con la triste verità del vuoto dell’esistenza, esprime una visione sconfortata del mondo e della vita; è, dunque, puramente simbolica. I suoi alberi magri, i lunghi girasoli sfioriti ci parlano di tristezza e solitudine.

    Ad esempio, in Albero d’autunno, attraverso la rappresentazione della pianta secca e avvizzita, Schiele racconta l’esperienza angosciosa della precarietà. Quest’albero ritorto è, prima di tutto, l’immagine scarna ed essenziale di sé stesso e a un tempo la tragica prefigurazione della morte che lo attende.

    Altrettanto si può dire per la sua serie dei Girasoli, che richiama quella, ben più nota, di Van Gogh: con la differenza che il vitalismo dei fiori vangoghiani si è come spento, esaurito. I girasoli di Schiele sono riarsi, appassiti, rinsecchiti. Mentre, nel loro trionfo di giallo, i girasoli di Van Gogh rendevano omaggio alla vita ed esprimevano un anelito di speranza, quelli di Schiele testimoniano la presa d’atto della disillusione.

    Il suo Girasole del 1909-10, alto e magro, è ancora una volta una sorta di autoritratto simbolico, perché secco, malato, incapace di reggere il peso della sua grande testa sullo stelo lungo e dritto, compresso nello spazio strettissimo della tela, prossimo alla morte. I girasoli di Schiele sono privi di forza e di vitalità, sono fiori inetti, tragicamente prigionieri del proprio isolamento.

    Da Schiele a Montale

    «Portami il girasole ch‘io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto giallino. Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Svanire / è dunque la ventura delle venture. / Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; /portami il girasole impazzito di luce». Così scriveva, nel 1923, il poeta italiano Eugenio Montale (1896-1981), che di Schiele fu quasi coetaneo, nella poesia intitolata Portami il girasole ch’io lo trapianti, contenuta nella raccolta Ossi di seppia, edita nel 1925.

    C’è tutta la forza di una preghiera, in questi versi, e, nel contempo, la confessione della debolezza del poeta, la cui anima è presentata come un terreno bruciato dal salino. Il giallo del girasole (come, altrove, sempre nella poesia montaliana, quello dei limoni), è fonte di tenera consolazione, allevia il disincanto del poeta, per cui tutto, alla fine, altro non è che un’illusione. Montale ritiene che la poesia (come, per certi versi, l’arte) non sia in grado di portare ordine nel caos interiore dell’uomo,

    Chagall e Nietzsche

    Chagall e Nietzsche

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    Marc Chagall (1887-1985), il cui nome ebraico era Moishe Segal, è stato un pittore russo naturalizzato francese, autore di scene romantiche e da sogno. Fu esponente della cosiddetta École de Paris o Scuola di Parigi. Gli studiosi vi raggruppano alcuni artisti stranieri attivi a Parigi tra il 1910 e il 1940, che non è facile collocare in veri e propri movimenti, ma che sono legati all’esperienza espressionista. Tra questi si distinguono Chagall e Modigliani.

    Come una favola

    La pittura di Chagall raffigura il mondo dei sogni ed è caratterizzata da una fortissima vena poetica. L’artista spiegò che la pittura gli era necessaria come il pane, gli sembrava come una finestra da cui avrebbe potuto fuggire. Nei suoi originalissimi dipinti, egli affrontò sempre tematiche legate all’amore coniugale, alla famiglia, alla struggente nostalgia per la sua infanzia e per il suo paese. Spesso si ispirò alle favole di quando era bambino.

    I suoi personaggi (giovani fidanzati, sposi immersi in mondi fantastici, animali simbolici, saltimbanchi e suonatori) sembrano tutti fatati, volano in cielo, sui tetti delle case come palloncini, leggeri, felici, senza preoccupazioni. È soprattutto alla moglie Bella, l’amore di tutta la vita, la sua musa ispiratrice, che Chagall dedicò i dipinti più teneri e toccanti.

    Persi nel blu

    Marc Chagall è stato il pittore dell’amore ma soprattutto il pittore del volo. Resi leggeri dalla loro capacità di amare, i personaggi dei suoi dipinti vengono letteralmente sospinti verso intensi cieli blu e in essi si librano. Vestiti di bianco (colore della purezza), sospinti da un soffio magico e invisibile, gli uomini e le donne di Chagall volteggiano nel cielo blu sorvolando paesi e città, superando distese di cupole o di tetti addormentati, non di rado mostrati con le gambe divaricate, simili a ballerini o saltimbanchi.

    Il mondo che Chagall raffigura è, nel vero senso del termine, un mondo rovesciato se non addirittura sottosopra. «Molti hanno fatto dell’umorismo sui miei dipinti», scrisse l’artista. «Non ho fatto niente per evitare quelle critiche. Al contrario. Sorridevo – tristemente, certo – della meschinità dei miei giudici. Ma avevo, malgrado tutto, dato un senso alla mia vita».

    Nietzsche: abbandonarsi alla vita

    Nella sua arte del sottosopra, così illogicamente liberata e liberatoria, si colgono echi del pensiero di Friedrich Nietzsche (1844-1900), il grande filosofo tedesco. Per ognuno di noi, il dolore prende forme diverse. Passiamo la nostra vita a pensarci, a parlarne, a studiarlo. Forse però sbagliamo a concentrare tutte le nostre forze nella comprensione e schematizzazione del nostro dolore. È quanto sostiene Nietzsche, per il quale è inutile e completamente sbagliato cercare di comprendere la vita secondo i criteri razionali che la tradizione metafisica e filosofica ci ha tramandato.

    Essa, secondo il filosofo, non è un meccanismo, una rigida sequenza di cause ed effetti. L’unico modo per reagire alla dolorosissima presa di coscienza che la vita non ha senso, né tantomeno uno scopo, è abbandonarsi in toto alla vita medesima, con un coraggioso “dire di sì”. È l’accettazione stessa dell’esistenza, non come sopportazione dolorosa ma come accettazione gioiosa. Ed è ciò che, secondo quanto Nietzsche elabora in una prima fase del suo pensiero, avviene all’interno dello spirito umano. Lo Spirito Dionisiaco (la risposta al senso tragico della vita) s’identifica con l’amore per la vita, che è forza creatrice, istinto, sensualità, passione, irrazionalità, e si contrappone allo Spirito Apollineo, che invece vive nella tranquillità di un sogno, in equilibrio e razionalità, reprimendo ogni suo istinto naturale.

    Il superuomo

    Secondo la tesi nietzscheana più matura, quella della volontà di potenza, solo il superamento dell’umano può produrre quell’accettazione gioiosa di ciò che i deboli cercano di sfuggire.

    Hayez, Manzoni e il Risorgimento

    Hayez, Manzoni e il Risorgimento

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    Francesco Hayez (Venezia, 1791 – Milano, 1882) fu un pittore italiano, esponente di rilievo del Romanticismo. Le sue opere, nate nel contesto del Risorgimento italiano, sono diventate popolarissime e hanno lasciato un segno molto profondo nella storia dell’arte italiana. Pur essendo un romantico, Hayez non rinunciò mai del tutto alla ricerca del bello ideale, aspetto che molti suoi colleghi europei tendenzialmente ignorarono.

    L’artista rimase legato alla poetica neoclassica che aveva segnato la sua formazione e così mantenne sempre uno stile impeccabile, un disegno nitido, la resa dei particolari più minuti, soprattutto la fiducia incondizionata nel potere educativo della storia. Scelse, così, di rappresentare soggetti del passato. Il suo Romanticismo è stato infatti definito “storico”. Hayez fu certamente l’artista romantico che più credette nel ruolo educativo della Storia, anche se a differenza dei neoclassici fece riferimento alla storia medievale per spiegare il presente.

    Hayez fu anche un celebrato e ricercato ritrattista. Ritrasse noti letterati, compositori e patrioti contemporanei, come il grande scrittore romantico Alessandro Manzoni, il musicista Gioacchino Rossini, il filosofo Antonio Rosmini e il politico Massimo D’Azeglio. Molti di questi ritratti sono conservati nella Pinacoteca milanese di Brera.

    I Vespri siciliani

    Uno fra i più grandi capolavori di soggetto storico di Hayez è del 1821 ed è intitolato I Vespri siciliani. Di questo quadro Hayez dipinse in tutto ben quattro versioni, l’ultima delle quali è del 1844-46. Quest’opera ha per tema un episodio, avvenuto a Palermo nel 1282, che provocò la rivolta dei siciliani e la cacciata dall’isola dei dominatori angioini. Subito dopo la funzione religiosa del Vespro (la preghiera del tramonto), del Lunedì di Pasqua, un soldato francese importunò una ragazza con il pretesto di perquisirla; il marito, furibondo, riuscì a sottrarre la spada al militare e a ucciderlo.

    Quel gesto scatenò la rivolta dei concittadini presenti; i palermitani si abbandonarono a una vera e propria “caccia ai francesi” che si trasformò in una carneficina e dilagò in tutta l’isola. Nell’ottica risorgimentale, la scelta di tale soggetto ha un significato evidente: celebrare un remoto episodio in cui gli italiani erano riusciti a cacciare gli invasori stranieri non poteva che essere l’incoraggiamento a ritrovare lo stesso coraggio e proseguire la lotta di liberazione.

    Hayez scelse di rappresentare il momento immediatamente successivo all’omicidio. Tutti i protagonisti sono distribuiti in primo piano: la donna turbata e sostenuta dal fratello, il francese caduto a terra con una mano sulla ferita, il marito con la spada ancora intrisa di sangue, i palermitani accorsi a vedere cos’era accaduto. Le figure hanno atteggiamenti molto teatrali, quasi da melodramma, che denunciano chiaramente la formazione neoclassica dell’autore.

    Anche lo stile, d’altro canto, è assai vicino a quello dei pittori neoclassici: il quadro presenta un disegno molto definito, chiaroscuri decisi che rendono le figure statuarie, colori tenui, grande chiarezza della visione d’insieme. L’opera resta comunque totalmente romantica, per il soggetto medievale, per la capacità di trasmettere emozioni e per la suspense drammatica della sua composizione, ricca di sentimenti esibiti e di esortazioni alle virtù civili.

    La Meditazione

    Agli occhi dei suoi contemporanei, Hayez era un pittore politicamente schierato. La Meditazione, un suo dipinto del 1851, venne subito identificata dai giornali come una allegoria della Patria sofferente a causa della dominazione straniera. In effetti, il titolo originario del quadro sarebbe stato L’Italia nel 1848, ma venne sostituito con quello attuale per non incorrere nella censura austriaca ed evitare possibili ritorsioni.

    Il dipinto presenta una giovane donna dai lunghi capelli neri,

    La sede del Bauhaus a Dessau di Gropius

    La sede del Bauhaus a Dessau di Gropius

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    La prima metà del XX secolo fu caratterizzata dalla nuova tendenza progettuale del Movimento Moderno. Gli architetti che vi aderirono si ribellarono al classicismo accademico, sostenendo le nuove proposizioni di forme elementari; promossero l’uso del cemento armato, del ferro e del vetro; proposero il controllo dell’espansione urbana, attraverso un’ordinata zonizzazione delle funzioni; vollero creare un linguaggio figurativo internazionale, definendo nuovi strumenti teorici e progettuali a sostegno della nuova architettura. Il Movimento Moderno è anche noto come Razionalismo o Funzionalismo.

    Gropius

    Tra i suoi principali esponenti fu Walter Gropius (1883-1969), architetto, designer e urbanista tedesco, il quale elaborò un metodo progettuale capace di affrontare i temi produttivi e costruttivi della nuova società industriale. Nei suoi progetti architettonici, Gropius compose volumi chiusi e interi, ricorrendo, in pratica, a soli due materiali: il vetro (incorniciato dal metallo) per tamponare i vuoti e l’intonaco bianco per evidenziare i pieni.

    Tra i suoi principali esponenti fu Walter Gropius (1883-1969), architetto, designer e urbanista tedesco, il quale elaborò un metodo progettuale capace di affrontare i temi produttivi e costruttivi della nuova società industriale. Nei suoi progetti architettonici, Gropius compose volumi chiusi e interi, ricorrendo, in pratica, a soli due materiali: il vetro (incorniciato dal metallo) per tamponare i vuoti e l’intonaco bianco per evidenziare i pieni.

    La sede del Bauhaus di Dessau

    Fra il 1925 e l’anno seguente, Gropius progettò a Dessau la seconda sede del Bauhaus, la scuola che era stata fondata nel 1919 per ricomporre il rapporto tra arte, artigianato e industria attraverso la produzione industriale di massa. Per la sua importanza, questo edificio è entrato a far parte del Patrimonio dell’umanità, nel 1996, assieme agli edifici di servizio, ossia gli alloggi del “maestri” e degli studenti.

    Si tratta di un complesso architettonico, concepito dal suo autore come una piccola polis: un organismo sociale, prima ancora che urbanistico o architettonico, il quale mostra un’articolazione che rimanda inequivocabilmente alle molteplici e varie attività che doveva accogliere al suo interno. In Europa prevaleva, a quei tempi, il modello architettonico di Oxford e Cambridge, che prevedeva una rigorosa separazione fra studio, lavoro e quotidianità, tra teoria e pratica, tra studenti e professori.

    Gropius volle superare questo modello, immaginando per la sua scuola spazi destinati, di fatto, contemporaneamente alla vita scolastica e a quella quotidiana. Si affermò, nel suo progetto, l’idea che una scuola fosse prima di tutto un contesto in cui prevaleva il rapporto personale tra docenti e studenti, un ambito educativo in cui si insegnava un metodo invece di indottrinare i giovani allievi.

    La chiusura e i restauri

    Nel 1930, il nazista Wilhelm Frick, Ministro degli interni e della pubblica istruzione, prese di mira l’esperienza del Bauhaus, reputandola una scuola di ispirazione comunista e bolscevica. Il ritrovamento nella biblioteca della scuola di Dessau di alcune riviste comuniste, probabilmente messe lì dagli stessi nazionalsocialisti, confermò le accuse e portò alla chiusura forzata dell’istituto, a fine settembre 1932. Mies van der Rohe tentò di riaprire la scuola a Berlino ma la presa di potere nazista portò alla chiusura definitiva nel 1933.

    Nel 1945, dopo il pesante bombardamento aereo su Dessau, parte dell’edificio venne distrutta da un incendio e anche la facciata in vetro dell’ala dei laboratori andò in frantumi.  In seguito, le strutture del complesso vennero riutilizzate e parzialmente alterate. Una meticolosa opera di restauro, finalizzato a riportare le architetture al loro aspetto originario, iniziò nel 1965 e proseguì nel 1976 e tra il 1996 e il 2006. Nel 2014,

    I segni dell’Art Déco e la donna degli “Anni Ruggenti”

    I segni dell’Art Déco e la donna degli “Anni Ruggenti”

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    Quando, nel 1925, venne organizzata a Parigi la seconda edizione della Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e industriali moderne, l’Art Nouveau lasciò il posto a un nuovo fenomeno di gusto, che coinvolse grafica, oreficeria, arredamento: l’Art Déco. Con questo termine, o con quello ugualmente diffuso di Stile 1925, si classificano oggetti di design, motivi decorativi, lavori di grafica e perfino alcune opere di pittura, scultura e architettura realizzate in Europa e negli Stati Uniti fra il 1915 e il 1940. L’Esposizione Universale di New York del 1939-40, infatti, è considerata convenzionalmente come la manifestazione di chiusura della stagione Art Déco.

    I segni dell’Art Déco

    Lo stile Art Déco è normalmente identificato con i suoi “segni” più evidenti: forme geometriche, superfici riccamente decorate, colori vivaci, fiori stilizzati, animali dai contorni sinuosi, sensuali figure femminili. Se l’Art Nouveau aveva esaltato il mito dell’arte per tutti, l’Esposizione parigina del 1925 celebrava invece un’arte di lusso, un’arte d’élite, ricca di pezzi unici, destinati idealmente alle ville dei colti collezionisti oppure ad ipotetiche ambasciate della Francia, un paese che intendeva riaffermare il proprio primato di leader delle arti decorative nel mondo.

    Dall’Art Nouveau all’Art Déco

    Rintracciare le fonti dell’Art Déco si rivela un’impresa molto difficile: lo stile include infatti molte manifestazioni differenti, legate a motivi ispiratori eterogenei e spesso in contraddizione fra loro. Alcune caratteristiche dello stile Art Déco erano già presenti nell’ambito della produzione art nouveau; due architetti si erano infatti distinti (per la propria essenzialità) dai designers franco-belgi, più legati alle linee sinuose e ai motivi lussureggianti.

    Il primo era stato l’austriaco Joseph Hoffmann (1870-1956), architetto, arredatore e designer, tra i principali protagonisti della Secessione viennese, il quale aveva disegnato decorazioni basate essenzialmente su forme geometriche. Il secondo era stato l’architetto e arredatore scozzese Charles Rennie Mackintosh (1868-1928), esponente di spicco del Modern Style britannico, nelle cui opere di design avevano prevalso profili severi e colori chiari. L’Art Déco richiama, tuttavia, anche gli smalti vetrosi e le lacche dell’Estremo Oriente, nonché gli stili Luigi XV e Luigi XVI dei mobili francesi.

    L’arte primitiva e i Balletti Russi

    Una ispirazione altrettanto rilevante, per gli artisti art déco, giunse anche dall’arte esotica e primitiva; tra le fonti più importanti, ricordiamo l’arte tribale africana, l’architettura del Centro America (azteca e maya) e l’arte egizia, soprattutto dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon, avvenuta nel 1922.

    Allo stesso modo, i designer déco furono incantati dai disegni audaci e dai colori brillanti proposti negli spettacoli dei Balletti Russi.

    Questa compagnia di danza, diretta da Sergej Djagilev, dal 1911 al 1929 produsse in Europa le innovazioni più significative nel campo del balletto, avvalendosi dei maggiori danzatori e coreografi dell’epoca, e coinvolse perfino grandi artisti per scenografie e costumi, tra cui Pablo Picasso.

    Art Déco e Avanguardie

    Tra le fonti più influenti ad ispirare la poetica art déco, di certo concorsero i contemporanei movimenti artistici d’Avanguardia: la ricerca futurista, la cromìa aggressiva dei Fauves, la complessa tridimensionalità del Cubismo, l’astrattismo dinamico del Futurismo, il rigore formale del Neoplasticismo, il gusto per il paradossale proprio del Costruttivismo russo.

    Tutti questi referenti furono fondamentali per lo sviluppo dello stile Art Déco; un esempio lo ritroviamo nella propensione all’uso delle figure geometriche elementari: il cerchio, il mezzo cerchio, la corona circolare, il quadrato, il triangolo, figure in sé stesse in grado di esprimere conclusione, definizione, equili

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Nickcanz69 ,

Arte Svelata e anche utile

Ottimo punto di riferimento per i miei ragazzi che vogliono imparare l'arte in modo diverso. Ricco di spunti e informazioni.
Grazie per il tuo lavoro.
GIovanni

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