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Un luogo d'incontro per chi ama l’arte e vuole scoprirne la storia e i segreti.

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    I segni dell’Art Déco e la donna degli “Anni Ruggenti”

    I segni dell’Art Déco e la donna degli “Anni Ruggenti”

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    Quando, nel 1925, venne organizzata a Parigi la seconda edizione della Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e industriali moderne, l’Art Nouveau lasciò il posto a un nuovo fenomeno di gusto, che coinvolse grafica, oreficeria, arredamento: l’Art Déco. Con questo termine, o con quello ugualmente diffuso di Stile 1925, si classificano oggetti di design, motivi decorativi, lavori di grafica e perfino alcune opere di pittura, scultura e architettura realizzate in Europa e negli Stati Uniti fra il 1915 e il 1940. L’Esposizione Universale di New York del 1939-40, infatti, è considerata convenzionalmente come la manifestazione di chiusura della stagione Art Déco.

    I segni dell’Art Déco

    Lo stile Art Déco è normalmente identificato con i suoi “segni” più evidenti: forme geometriche, superfici riccamente decorate, colori vivaci, fiori stilizzati, animali dai contorni sinuosi, sensuali figure femminili. Se l’Art Nouveau aveva esaltato il mito dell’arte per tutti, l’Esposizione parigina del 1925 celebrava invece un’arte di lusso, un’arte d’élite, ricca di pezzi unici, destinati idealmente alle ville dei colti collezionisti oppure ad ipotetiche ambasciate della Francia, un paese che intendeva riaffermare il proprio primato di leader delle arti decorative nel mondo.

    Dall’Art Nouveau all’Art Déco

    Rintracciare le fonti dell’Art Déco si rivela un’impresa molto difficile: lo stile include infatti molte manifestazioni differenti, legate a motivi ispiratori eterogenei e spesso in contraddizione fra loro. Alcune caratteristiche dello stile Art Déco erano già presenti nell’ambito della produzione art nouveau; due architetti si erano infatti distinti (per la propria essenzialità) dai designers franco-belgi, più legati alle linee sinuose e ai motivi lussureggianti.

    Il primo era stato l’austriaco Joseph Hoffmann (1870-1956), architetto, arredatore e designer, tra i principali protagonisti della Secessione viennese, il quale aveva disegnato decorazioni basate essenzialmente su forme geometriche. Il secondo era stato l’architetto e arredatore scozzese Charles Rennie Mackintosh (1868-1928), esponente di spicco del Modern Style britannico, nelle cui opere di design avevano prevalso profili severi e colori chiari. L’Art Déco richiama, tuttavia, anche gli smalti vetrosi e le lacche dell’Estremo Oriente, nonché gli stili Luigi XV e Luigi XVI dei mobili francesi.

    L’arte primitiva e i Balletti Russi

    Una ispirazione altrettanto rilevante, per gli artisti art déco, giunse anche dall’arte esotica e primitiva; tra le fonti più importanti, ricordiamo l’arte tribale africana, l’architettura del Centro America (azteca e maya) e l’arte egizia, soprattutto dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon, avvenuta nel 1922.

    Allo stesso modo, i designer déco furono incantati dai disegni audaci e dai colori brillanti proposti negli spettacoli dei Balletti Russi.

    Questa compagnia di danza, diretta da Sergej Djagilev, dal 1911 al 1929 produsse in Europa le innovazioni più significative nel campo del balletto, avvalendosi dei maggiori danzatori e coreografi dell’epoca, e coinvolse perfino grandi artisti per scenografie e costumi, tra cui Pablo Picasso.

    Art Déco e Avanguardie

    Tra le fonti più influenti ad ispirare la poetica art déco, di certo concorsero i contemporanei movimenti artistici d’Avanguardia: la ricerca futurista, la cromìa aggressiva dei Fauves, la complessa tridimensionalità del Cubismo, l’astrattismo dinamico del Futurismo, il rigore formale del Neoplasticismo, il gusto per il paradossale proprio del Costruttivismo russo.

    Tutti questi referenti furono fondamentali per lo sviluppo dello stile Art Déco; un esempio lo ritroviamo nella propensione all’uso delle figure geometriche elementari: il cerchio, il mezzo cerchio, la corona circolare, il quadrato, il triangolo, figure in sé stesse in grado di esprimere conclusione, definizione, equili

    • 10 min
    Il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan Van Eyck

    Il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan Van Eyck

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    Jan Van Eyck (1390 ca.-1441) fu l’artista fiammingo più conosciuto e apprezzato del XV secolo e senza dubbio la portata della sua opera può essere confrontata solo a quella rivoluzionaria di Masaccio. Con Van Eyck, la pittura fiamminga assunse infatti una dimensione europea, influenzando in parte anche lo sviluppo dell’arte in Italia, in Francia, in Spagna e in Germania.

    Nacque nell’attuale Lussemburgo ma non si conoscono né l’anno preciso della sua nascita né le circostanze della sua formazione. Le prime opere note sono miniature, a testimonianza del forte legame che unì il pittore al mondo gotico. Ancora in qualità di miniatore, nel 1422 Van Eyck si recò all’Aja per lavorare al servizio di Giovanni di Baviera, conte d’Olanda, e dopo la morte di questi, nel 1425, si trasferì presso la corte di Filippo il Buono, duca di Borgogna, per conto del quale viaggiò in Spagna, Portogallo e Inghilterra.

    Il Polittico dell’Agnello Mistico

    Capolavoro assoluto di Van Eyck è il Polittico dell’Agnello Mistico, detto anche Altare di Gand. Fu dipinto tra il 1426 e il 1432 per la Cattedrale di Saint-Bavon a Gand, dove ancora oggi si può ammirare. Un’iscrizione indica come iniziatore e maggior responsabile del dipinto il fratello di Van Eyck, un certo Hubert, un misterioso personaggio di cui non si conoscono altre opere e la cui reale esistenza è provata solo da una tomba, che comunque lo dice morto già nel 1426. Pertanto, alcuni studiosi ritengono che sia stato Jan van Eyck l’unico autore del dipinto e che l’iscrizione sia un’aggiunta posteriore da non considerarsi verosimile.

    Nel corso dei secoli, l’opera venne smontata e rimontata più volte. Requisito come bottino di guerra per ordine personale di Hitler nel 1942, durante la Seconda guerra mondiale il polittico fu nascosto in una miniera di sale e poi recuperato dai famosi Monuments Men, la squadra speciale americana che salvò una serie di importanti opere d’arte dalla razzia nazista. La ricostruzione attuale, seguita all’importante restauro dell’opera (iniziato nel 2012 e programmato fino al 2026), parrebbe essere quella più probabile.

    Il polittico chiuso

    L’opera, che è il polittico più imponente fra quelli realizzati nelle Fiandre durante il XV secolo, trae il nome dal soggetto principale raffigurato, l’Adorazione dell’Agnello Mistico. È composta da molte tavole, otto delle quali fungono da sportelli e sono dipinte su entrambi i lati. Osservato chiuso, l’Altare di Gand presenta una facciata concepita come un complesso architettonico a due livelli che costituisce una sorta di introduzione a quanto poi presentato dal polittico aperto.

    Il livello inferiore è diviso in quattro nicchie che accolgono le figure, a grandezza naturale, dei committenti inginocchiati (un nobile di Gand e sua moglie) e i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista. I due ritratti restituiscono fedelmente i tratti somatici dei coniugi, senza tralasciare alcun dettaglio, dalla barba di un giorno di lui alle rughe e occhiaie di entrambi. I santi, patroni della chiesa ospitante, sono presentati in forma di statua, con un eccellente effetto illusionistico da trompe-l-oeil.

    L’Annunciazione

    Il livello superiore, invece, presenta un ambiente con il soffitto a travi lignee piuttosto basso, aperto in fondo su una piazza cittadina, che ospita una Annunciazione e, idealmente al di sopra del soffitto, due profeti (Zaccaria a sinistra e Michea a destra) e due sibille (a sinistra la Sibilla Eritrea, a destra la Sibilla Cumana), tutti con cartigli, che profetizzano la venuta di Cristo. La facciata del polittico chiuso, dunque, simboleggia l’inizio e il prologo terreno del processo della Redenzione.

    L’Arcangelo Gabriele porge alla Vergine un grande giglio, simbolo della sua purezza, e pronuncia la frase «Ave gratia plena D[omi]n[u]s tecum[m] » («Ave, o piena di grazia, il Signore è con te»). Maria, inginocchiata con le mani al petto,

    • 12 min
    George Grosz

    George Grosz

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    Tra il 1919 e il 1935 si sviluppò in Germania il movimento artistico noto come Nuova oggettività, che ritraendo i propri soggetti non come apparivano agli occhi ma com’erano moralmente, dunque “oggettivamente” brutti e grotteschi, affrontò soprattutto il tema della città, intesa come un luogo di perdita dell’identità collettiva e come lo scenario di un orrido carnevale. Il movimento si legava alla recente esperienza espressionista, con la quale condivideva l’uso di una linea contorta e tormentata, l’adozione di un cromatismo acceso e violento, la scelta di composizioni drammatiche e sgradevoli. Gli artisti più significativi della Nuova oggettività furono i tedeschi George Grosz e Otto Dix, i cui personaggi tragicomici, esponenti dell’alta borghesia e dell’esercito, sono mostrati spenti e svuotati, oppure cinici e spregevoli.

    Grosz

    Formatosi a Dresda e a Berlino, George Grosz (1893-1959) partecipò, come Dix, alla Prima guerra mondiale, ma venne presto congedato per motivi di salute: il trauma psicologico provocato dalla guerra di trincea e il conseguente esaurimento nervoso richiesero, infatti, il suo ricovero in un ospedale militare. Dopo un esordio con prove cubiste e futuriste, contribuì, nel 1918, alla nascita del Dada berlinese; nel 1920 fu tra i principali promotori della Nuova oggettività.

    Nonostante avesse aderito al partito comunista tedesco, Grosz non volle mai fare della sua pittura un semplice strumento di propaganda politica, destinandola ad un compito ben più alto: offrire una testimonianza drammatica e sconvolgente di un mondo che traboccava violenza e sessualità. Avendo riconosciuto la follia della Prima guerra mondiale, non divenne preda del patriottismo ostentato dalla maggioranza dei suoi connazionali. Al contrario, decise di denunciare il “crollo del mondo borghese”.

    Le sue opere, tutte di fortissimo impatto visivo, sono ricche di situazioni grottesche, affollate di mutilati di guerra senza speranza, disoccupati sull’orlo della disperazione, militari tracotanti e senz’anima, viscidi docenti senza dignità, preti grassi e boriosi privi di carità. Nessun altro artista si scagliò mai con la medesima, lucida passione etica contro il perbenismo piccolo-borghese, l’ipocrisia del clero, l’ottusa spietatezza dell’esercito, la pochezza della politica.

    Metropolis 

    Durante gli anni della Prima guerra mondiale, Grosz dipinse due capolavori dal marcato carattere espressionista: Metropolis e Il Funerale (Dedicato a Oskar Panizza). Metropolis affronta il tema della città moderna, frutto di una trasformazione fuori controllo che stava rendendo i centri urbani fuori scala, caotici, privi di misura d’uomo. In questo senso, la posizione di Grosz era profondamente divergente da quella, contemporanea, dei futuristi italiani, che invece esaltavano il progresso identificandolo proprio nella Città Nuova.

    Nel quadro di Grosz, la metropoli, identificabile con Berlino, è l’espressione del caos più incontrollabile. Prevale, nella scena, il colore rosso. L’influenza del Futurismo italiano in quest’opera è abbastanza evidente, nelle visioni simultanee, nella sovrapposizione delle figure che richiamano il ritmo febbrile della vita cittadina, ma l’artista tedesco ribalta completamente il significato del soggetto: il caos, vitalistico per i futuristi, qui ha una valenza distruttiva, quasi apocalittica.

    Di questo soggetto esiste una seconda versione, una tavoletta oggi conservata al MoMA di New York, la cui composizione è tutta organizzata sulla diagonale. Gli edifici caoticamente ammassati, inclinati e instabili, creano una trappola claustrofobica. Pochi ma significativi personaggi, tra cui una prostituta seminuda, simboleggiano il vizio e la lussuria. «Ho disegnato e dipinto per uno spirito di contraddizione”, avrebbe chiarito Grosz, «e ho tentato nel mio lavoro di convincere il mondo che questo mondo è brutto, malato e mendace».

    Il funerale

    • 9 min
    Fidia. Le grandi statue

    Fidia. Le grandi statue

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    Coetaneo di Mirone e dunque più anziano di Policleto (che certamente ebbe modo di conoscere), lo scultore ateniese Fidia (490 a.C.ca.-430 a.C.ca.) fu l’artista più ammirato e celebrato dell’antichità. Persino il grande filosofo Platone (V-IV secolo a.C.), che pure con gli artisti non era tenero, lo giudicò assai meritevole. Gli intellettuali romani, tra cui lo scrittore Cicerone (I secolo a.C.), lo reputarono capace di conferire alle sue sculture una bellezza soprannaturale.

    Lo scultore degli dèi

    Fidia compì la sua prima formazione presso la bottega di Egia, bronzista e scultore ateniese attivo tra il 490 e il 460 a.C. È stato ipotizzato un ulteriore apprendistato ad Argo presso Agelada, maestro anche di Mirone e Policleto, che quindi si configurerebbe come una vera e propria guida per la generazione degli scultori classici. Intorno al 475 a.C., probabilmente, era già un artista completo e nel 470 a.C. dirigeva una bottega propria. 

    Fidia seppe superare la tradizione senza contestarla, evadere ogni norma senza stravolgerla. Alla sua magistrale abilità nel farsi interprete della politica culturale di Pericle unì un grande talento personale, una rara padronanza della tecnica e una vera e propria capacità imprenditoriale e di coordinamento. Le fonti lo contrappongono spesso a Policleto, suo ideale avversario e rivale, giudicando le sue figure più solenni e grandiose. In effetti, se Policleto fu per eccellenza lo scultore degli atleti, Fidia preferì di gran lunga soggetti più autorevoli, come gli dèi dell’Olimpo. L’ultima opera della sua carriera, lo Zeus di Olimpia (oggi perduta) fu addirittura celebrata come una delle sette meraviglie del mondo.

    L’Atena Promachos 

    Intorno al 460 a.C., Fidia ricevette il suo primo incarico di eccezionale importanza: la realizzazione di una gigantesca scultura in bronzo per l’Acropoli di Atene, raffigurante Athena Pròmachos, ossia Atena combattente. L’opera, oggi perduta, era collocata subito oltre i Propilei, che sono l’ingresso monumentale dell’Acropoli, e quindi era la prima ad essere ammirata una volta entrati nel piazzale dell’area sacra. Pagata con il bottino della Battaglia di Maratona ed eretta per commemorare quella vittoria, l’Athena Pròmachos era alta circa 7.60 metri mentre il suo basamento era alto circa 1.50 metri ed era riccamente decorato in marmo. La scultura fu trasferita a Costantinopoli, per ordine dell’Imperatore Teodosio II, nel 426 d.C. e lì rimase fino ai primi anni del XIII secolo, venendo poi distrutta in circostanze mai chiarite.

    Purtroppo, non abbiamo copie o riproduzioni che possano aiutarci a visualizzare il capolavoro fidiaco. La consolidata iconografia di Atena Pròmachos presentava la dèa nell’atto di scagliare la lancia. Tuttavia, sappiamo, sulla scorta delle descrizioni antiche, che Fidia propose un modello differente: la sua dea, infatti, teneva nella mano destra una Nike alata, la lancia appoggiata alla spalla destra e un grande scudo (decorato con una scena di Centauromachia) con il braccio sinistro.

    L’Apollo Parnòpios

    Un altro capolavoro dell’artista, anch’esso in bronzo, fu l’Apollo Parnòpios, ‘che allontana le cavallette’. Quest’opera, che risale al 460 a.C. (nota per una copia in marmo, detta ‘versione Kassel’), precedette di una decina di anni il Doriforo di Policleto e fu sostanzialmente contemporanea ai Bronzi di Riace.

    In effetti, l’Apollo Parnòpios appare già a un primo sguardo un po’ più arcaico del Doriforo: le spalle più larghe e i piedi più uniti, infatti, accentuano l’impressione di frontalità legando l’opera al tipo tradizionale del koùros; anche il modellato del volto, il trattamento incredibilmente ricco dei capelli, le labbra carnose, l’espressione grave e autorevole rimandano al linguaggio severo dei suoi maestri. Tuttavia, osserviamo che rispetto al Tideo di Agelada, ossia il Bronzo A di Riace, il modellato del corpo è più

    • 10 min
    Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e i suoi mosaici. Seconda parte

    Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e i suoi mosaici. Seconda parte

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    La Chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna venne costruita su iniziativa del re ostrogoto Teodorico nel 505 come basilica di culto ariano. Inizialmente, infatti, era stata dedicata a Domini Nostri Jesu Christi. Fu la chiesa palatina di Teodorico: il re e la sua corte vi assistevano alle celebrazioni eucaristiche. Quando la città venne conquistata da Giustiniano nel 540, la chiesa passò in proprietà alla Chiesa cattolica, come tutti i beni immobili già posseduti dagli ariani.















    Fu riconsacrata a San Martino di Tours, difensore della fede cattolica e avversario di ogni eresia, e dedicata al culto cattolico. In quella occasione, furono distrutti alcuni dei suoi mosaici paleocristiani e sostituiti con nuovi cicli musivi, che quindi sono di età bizantina.







    Le Vergini e i Martiri







    Durante seconda metà del VI secolo, furono quasi interamente rifatti i due registri inferiori della decorazione musiva del cleristorio, gli stessi che contengono il Palazzo di Teodorico e il Porto di Classe (sopravvissuti alla distruzione). Presentano due lunghe Processioni di Vergini e di Martiri, che idealmente accompagnano il fedele dall’ingresso dell’edificio fino alla zona absidale.







    Parete sinistra del cleristorio di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Decorazione musiva, VI secolo. Registro superiore con Storie di Cristo (500-525 ca.), registro mediano con Santi e Profeti (500-525 ca.), registro inferiore con (da sinistra) il Porto di Classe (500-525 ca.), la Processione delle Vergini (568 ca.), i re Magi e la Madonna con il Bambino in trono (561-68 ca.).







    Parete sinistra del cleristorio di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Decorazione musiva, VI secolo. Registro superiore con Storie di Cristo (500-525 ca.), registro mediano con Santi e Profeti (500-525 ca.), registro inferiore con (da destra) il Palazzo di Teodorico (500-525 ca.), la Processione dei Martiri (568 ca.), Cristo in trono (561-68 ca.).







    Vergini e Martiri non sembrano neppure muoversi: giusto la leggera inclinazione dei corpi o il lieve fluttuare dei mantelli testimoniano del loro camminare. Gli uomini, identificati dal loro nome scritto in alto, calzano sandali sui piedi nudi; le donne, anch’esse sovrastate dai propri nomi, indossano eleganti scarpette rosse.















    I personaggi maschili presentano, negli orli delle vesti, dei segni liturgici simili a lettere greche, chiamati gammadiae (dalla lettera greca Gamma), occasionalmente presenti nell’arte paleocristiana e bizantina. Le gammadiae potrebbero avere significati simbolici, forse relativi alle qualità di Cristo. Tali significati, un tempo noti, sono stati dimenticati nei secoli successivi. Oggi, nonostante vari tentativi di interpretazione, restano ancora misteriosi.







    Processione di Martiri, 561-68 ca. Particolare. Mosaico. Ravenna, navata maggiore della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.







    Vergini e Martiri offrono a Gesù e a Maria la propria corona, in genere tenendola attraverso il mantello (non si usava, a quei tempi, toccare gli oggetti sacri con le mani nude). Le piante che si trovano tra una figura e l’altra hanno una funzion...

    • 6 min
    San Carlo alle Quattro Fontane di Borromini

    San Carlo alle Quattro Fontane di Borromini

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    La Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane fu il primo importante incarico della carriera del grande architetto barocco Francesco Borromini (1599-1667). L’edificio, dedicato a san Carlo Borromeo, gli venne commissionato dall’Ordine spagnolo dei Trinitari Scalzi, insieme all’annesso convento. Nel 1638 fu posta la prima pietra della chiesa, compiuta, ad esclusione della facciata, nel 1641.















    La chiesa venne scherzosamente rinominata dai romani San Carlino, a causa delle sue minuscole dimensioni. Si pensi che la sua area equivale allo spazio occupato da uno solo dei piloni che sostengono la cupola di San Pietro.







    Francesco Borromini, San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-67, Roma.







    Il chiostro







    Disegnando il piccolo chiostro rettangolare del convento, Borromini creò una nuova tipologia formale. Infatti, distribuì gli intervalli delle colonne con un ritmo alterno (più larghi e più stretti), eliminò gli angoli e li trasformò in corpi convessi. In tal modo, la pianta si trasforma in un ottagono irregolare.















    L’alzato presenta un doppio ordine di colonne; quelle inferiori sono tuscaniche e presentano un capitello il cui abaco si prolunga in modo da costituire una sorta di architrave continuo e mistilineo, ossia retto nelle porzioni di muro e curvo in corrispondenza degli archi.







    Francesco Borromini, Chiostro rettangolare del Convento di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-38, veduta. Roma.







    Francesco Borromini, Chiostro del Convento di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-38, particolare. Roma.







    Francesco Borromini, Chiostro del Convento di San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-38, particolare. Roma.







    Il metodo borrominiano







    Già nel piccolo intervento del chiostro, Borromini affrontò un tema che si sarebbe rivelato fondamentale nello sviluppo successivo della sua arte: quello della continuità ottica e spaziale dell’architettura. Le opere borrominiane non presentano mai un incontro fra due superfici piatte; vi si coglie sempre la volontà di addolcire gli spigoli, di ridurre gli aggetti, di stabilire un rapporto tra verticali e orizzontali con mediazioni che scongiurino qualsiasi forma di discontinuità.







    Francesco Borromini, San Carlo alle Quattro Fontane, 1634-67, Roma. Pianta della chiesa e del chiostro.







    La pianta della chiesa







    Borromini si rivelò un vero maestro di razionalità distributiva. Il suo metodo, estraneo alla tradizione classica della progettazione modulare, era infatti basato sull’uso di unità geometriche. Nella chiesa, per esempio, lo schema di base della pianta è costituito da un rombo, formato da due triangoli equilateri che hanno un lato in comune, cui si sovrappone il perimetro mistilineo dell’edificio.

    • 7 min

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Nickcanz69 ,

Arte Svelata e anche utile

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Grazie per il tuo lavoro.
GIovanni

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